Il contratto di convivenza

I conviventi di fatto, per tutta la durata della loro unione sentimentale, operano spesso una mescolanza dei loro singoli patrimoni, proprio come avviene ai coniugi durante il matrimonio.
E’ frequente infatti che i conviventi coabitino sfruttando l’abitazione di proprietà di uno solo dei partner, acquistino beni insieme, aprano conti correnti cointestati, utilizzino in modo condiviso l’autovettura, ecc…

Tale confusione patrimoniale, in caso di rottura della convivenza, può generare dissidi e pretese restitutorie.

E’ quindi consigliabile, al fine di evitare future liti, che i conviventi di fatto, attraverso la consulenza di un professionista legale, pianifichino la loro vita in comune ed il suo ipotetico scioglimento, attraverso la sottoscrizione di un contratto di convivenza.

Come già trattato nel nostro approfondimento sui diritti dei conviventi, la Legge 20/05/2016, n. 76 (c.d. Legge Cirinnà), ha regolamentato la convivenza di fatto, introducendo altresì per i conviventi la possibilità di stipulare contratti di convivenza.

Il comma 50, dell’art. 1 della sopra richiamata disposizione stabilisce infatti che “I conviventi di fatto possono disciplinare i rapporti patrimoniali relativi alla loro vita in comune con la sottoscrizione di un contratto di convivenza”.

L’oggetto di tale contratto è poi indicato al successivo comma 53, con cui si stabilisce che il contratto può contenere:
a) l’indicazione della residenza;
b) le modalità di contribuzione alle necessità della vita in comune, in relazione alle sostanze di ciascuno e alla capacità di lavoro professionale e casalingo;
c) il regime patrimoniale della comunione dei beni.

Tale elencazione non ha però, carattere tassativo, come ribadito a più riprese dalla dottrina.
I partner potranno quindi regolamentare anche altri aspetti legati alla convivenza o alla eventuale crisi della coppia, ad esempio stabilendo una somma a titolo di mantenimento del convivente economicamente più debole.

Il contratto di convivenza non può essere sottoposto a termine o condizioni, e laddove tali elementi vengano inseriti nella convenzione, andranno considerati come non apposti ed il contratto conserverà la sua efficacia.

Il contratto di convivenza, che può essere modificato in ogni momento, si risolve per:

  • morte di uno dei due contraenti;
  • matrimonio o unione civile dei contraenti o di uno di essi con un terzo;
  • recesso unilaterale di uno dei partner o per accordo delle parti. Nel caso in cui le parti avessero adottato il regime della comunione dei beni, la risoluzione del contratto ne determina lo scioglimento.

In presenza di una delle seguenti condizioni, il contratto di convivenza è nullo e tale nullità può essere sollevata da chiunque vi abbia interesse:
a) se concluso in presenza di un vincolo matrimoniale, di un’unione civile o di un altro contratto di convivenza;
b) se concluso da persona minore di età;
c) se concluso in assenza di una stabile convivenza, caratterizzata da un legame affettivo di coppia e da reciproca assistenza morale e materiale;
d) se concluso da persona interdetta;
e) in caso di condanna di una delle parte per omicidio consumato o tentato del coniuge dell’altra.

Il contratto di convivenza, le sue modifiche o la sua risoluzione, devono essere redatti in forma scritta, con atto pubblico o scrittura privata autenticata da un Notaio o da un Avvocato, che, oltre a curarne la trasmissione al comune di residenza dei conviventi ai fini dell’iscrizione all’anagrafe, ne devono attestare la conformità alle norme imperative e all’ordine pubblico.

In conclusione: è raccomandabile che i conviventi di fatto, anche attraverso l’assistenza e la consulenza di un professionista del settore, valutino l’opportunità di disciplinare convenzionalmente i loro reciproci rapporti patrimoniali, così da evitare possibili controversie future.

I diritti dei conviventi

La Legge 20/05/2016, n. 76 (c.d. Legge Cirinnà), che ha introdotto nel nostro Paese le Unioni Civili tra persone dello stesso sesso, ha anche previsto una regolamentazione della convivenza di fatto, istituto che può riguardare sia coppie eterosessuali sia coppie omosessuali.

Al comma 36, dell’art. 1 (unico articolo di cui si compone la legge) della sopra richiamata disposizione, viene infatti definito il concetto di convivenza di fatto, con cui si intendono “due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio, o da un’unione civile”.

Il successivo comma 37 stabilisce, poi, che per l’accertamento della stabile convivenza, necessaria ai fini del riconoscimento dei diritti scaturenti dalla Legge Cirinnà, si fa riferimento alla dichiarazione anagrafica di cui all’art. 4 d.p.r. 223/1989 (“Famiglia Anagrafica. Agli effetti anagrafici per famiglia si intende un insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, parentela, affinità, adozione, tutela o da vincoli affettivi, coabitanti ed aventi dimora abituale nello stesso comune. Una famiglia anagrafica può essere composta da una sola persona”) e alla lettera b) dell’art. 13 d.p.r. 223/1989 (“Dichiarazioni anagrafiche. Le dichiarazioni anagrafiche da rendersi dai responsabili di cui all’art. 6 del presente regolamento concernono i seguenti fatti: b) costituzione di una nuova famiglia o di una nuova convivenza, ovvero mutamenti intervenuti nella composizione della famiglia o della convivenza”).

In sintesi, per poter provare di avere i requisiti per beneficiare delle tutele previste a favore dei conviventi dalla Legge Cirinnà, occorrerà effettuare all’Anagrafe del Comune di residenza la dichiarazione che la convivenza avviene per ragioni affettive.

In ragione del dettato letterale della norma, va escluso che la convivenza intrapresa da persone separate, ancora legate da un precedente vincolo matrimoniale, possa ricadere nell’ambito della disciplina in oggetto.

La Legge in oggetto prevede, quindi, una serie di tutele per i conviventi di fatto, che però, per la natura stessa del rapporto, non assumono alcun obbligo giuridico reciproco, a differenza di quanto avviene per il matrimonio o l’unione civile.

Esaminiamo ora le tutele riconosciute dalla Legge Cirinnà ai conviventi:

  • in materia di ordinamento penitenziario: vengono riconosciuti ai conviventi di fatto gli stessi diritti spettanti al coniuge nei casi previsti dall’ordinamento penitenziario.
    La legge sull’ordinamento penitenziario stabilisce invero che va agevolata la conservazione dei rapporti familiari del detenuto, favorendo il contatto diretto dell’internato con i propri familiari.
  • in materia di assistenza sanitaria: in caso di malattia o di ricovero, i conviventi hanno diritto reciproco di visita, assistenza ed accesso alle informazioni personali.
    Inoltre ciascun convivente può designare l’altro quale rappresentante, con poteri pieni o limitati, per l’assunzione di decisioni in materia di salute, anche in caso di malattia che comporta perdita della capacità di intendere e di volere, oppure, in caso di morte, per l’assunzione delle decisioni relative alle esequie o all’espianto degli organi.
    Tale designazione deve avvenire in forma scritta e autografa oppure, in caso di incapacità a redigerla, alla presenza di un testimone.
  • in materia abitativa: in caso di morte del proprietario della casa di comune residenza, il partner può continuare ad abitare nella stessa per due anni o per la durata della convivenza, se superiore a due anni e comunque non oltre i cinque anni.
    Nel caso in cui con il convivente superstite coabitino anche figli minori o disabili, tale diritto viene previsto per un periodo non inferiore a tre anni.
    La predetta tutela viene meno laddove il partner superstite cessi di abitare stabilmente nella casa, oppure contragga matrimonio, unione civile o nuova convivenza di fatto.
    Nel caso, infine, di morte del conduttore o di suo recesso dal contratto di locazione, il convivente di fatto ha diritto di succedergli nel contratto di locazione.
  • in materia di graduatorie per l’assegnazione di alloggi di edilizia popolare: le coppie di fatto possono godere, a parità di condizione con altri nuclei familiari, di un titolo di preferenza ai fini dell’assegnazione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica.
  • in materia di impresa familiare: la Legge Cirinnà ha previsto l’introduzione nel codice civile dell’art. 230 ter c.c..
    Tale disposizione riconosce al convivente, che presti stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa dell’altro, il diritto alla partecipazione agli utili dell’impresa ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, commisurata all’entità del lavoro prestato.
  • in materia di interdizione, inabilitazione ed amministrazione di sostegno: il convivente di fatto viene inserito tra i soggetti che devono essere indicati, ai sensi dell’art. 712 c.p.c., nella domanda di interdizione o inabilitazione del partner.
    Viene inoltre riconosciuta al convivente la facoltà di essere nominato tutore, curatore o amministrazione di sostegno del partner dichiarato interdetto, inabilitato o sottoposto ad amministrazione di sostegno.
  • in materia di risarcimento del danno: in caso di morte del convivente conseguente al fatto illecito del terzo, ad esempio in caso di infortunio sul lavoro o incidente stradale, al convivente spetta lo stesso risarcimento del danno che sarebbe spettato al coniuge.
  • contratti di convivenza: i conviventi di fatto possono, infine, stipulare contratti di convivenza, per regolare i rapporti patrimoniali relativi alla loro vita in comune.

Alla luce, quindi, della nuova disciplina introdotta per le unioni civili e le convivenze di fatto dalla Legge 76/2016, è importante che le coppie, anche attraverso l’assistenza e la consulenza di un professionista del settore, vengano rese edotte delle possibilità e delle tutele riconosciute dal nostro ordinamento, al fine di scegliere consapevolmente quale regime familiare adottare per il loro rapporto.

Separarsi con la Negoziazione Assistita

Il D.L. n. 132 del 2014, convertito con modificazione dalla Legge 10/11/2014 n. 162, ha introdotto nel nostro ordinamento uno strumento di soluzione consensuale dei conflitti familiari alternativo alla procedura avanti al Tribunale: la negoziazione assistita.

Il procedimento di negoziazione assistita consente invero ai coniugi di separarsi, divorziare o modificare le condizioni della separazione o del divorzio, in via negoziale, senza alcun deposito o udienza davanti al Giudice.

E’, comunque, obbligatoria l’assistenza di almeno un Avvocato per coniuge, così da garantire anche in fase negoziale il rispetto dei diritti delle parti.

Il procedimento di negoziazione assistita si svolge attraverso una doppia fase negoziale, che si articola, dapprima, nella sottoscrizione di una convenzione di negoziazione assistita, con cui le parti definiscono le modalità di svolgimento della negoziazione, e, successivamente, nella sottoscrizione dell’accordo di separazione o di divorzio.

Tale accordo dovrà poi essere depositato presso la Procura della Repubblica, al fine di ottenere da parte del P.M. l’autorizzazione in caso di figli minori o non autosufficienti, o il nulla osta negli altri casi. Successivamente l’accordo sarà trasmesso all’Ufficio di Stato Civile del Comune in cui è stato contratto il matrimonio per l’annotazione negli appositi Registri.

I coniugi possono ricorrere alla negoziazione anche in presenza di figli, minori, disabili, o non economicamente autosufficienti.
In tal caso, il Pubblico Ministero autorizzerà l’accordo solo dopo aver valutato la rispondenza dello stesso all’interesse dei figli.

In sede di negoziazione assistita i coniugi, oltre a disporre dell’eventuale mantenimento del coniuge e/o dei figli, potranno anche raggiungere accordi che comportino trasferimenti immobiliari.

L’accordo raggiunto a seguito di negoziazione assistita ha la stessa efficacia dei provvedimenti del Tribunale ed HA IL VANTAGGIO DI UNA MAGGIORE RAPIDITA’ non dovendo recarsi in Tribunale!!

Per tutta la durata del procedimento le parti devono cooperare in buona fede e con lealtà al fine di risolvere bonariamente il conflitto coniugale.

Per ulteriori approfondimenti sul tema è possibile consultare nel sito il video dedicato alla negoziazione assistita.

Divorzio tra stranieri: qual è la legge applicabile?

Quale legge si applica alla separazione e al divorzio che presentano elementi di internazionalità?

Il Giudice, chiamato a pronunciarsi sul divorzio di coniugi extracomunitari o con cittadinanze tra loro diverse, quale legge deve applicare allo scioglimento del matrimonio? Ed, in particolare, è possibile per il Giudice italiano applicare la legge di uno Stato diverso?

Tali interrogativi possono avere risvolti pratici molto significativi.
Si pensi, ad esempio, alla possibilità di applicare la legge di uno Stato che riconosce, al contrario del nostro ordinamento, il divorzio immediato, senza alcun preventivo periodo di separazione.

In Italia, la normativa di riferimento in materia di legge applicabile alla separazione e al divorzio che presentano elementi di estraneità è costituita dal Regolamento UE 1259/2010, cd. Roma III relativo all’attuazione di una cooperazione rafforzata nel settore della legge applicabile al divorzio e alla separazione personale”.

Tale Regolamento, che nasce con l’obiettivo di uniformare la disciplina dei singoli Stati partecipanti, attribuisce particolare rilievo all’autonomia ed alla volontà dei coniugi nella determinazione della legge applicabile al loro divorzio.

Il criterio di elezione per stabilire quale legge applicare al divorzio è infatti rappresentato dalla “scelta della parti”.
L’art. 5 del Regolamento Roma III stabilisce, invero, che i coniugi possono designare di comune accordo la legge applicabile al divorzio e alla separazione personale, purché si tratti:
a) della legge dello Stato di residenza abituale dei coniugi (sulla nozione di “residenza abituale “, cfr. l’approfondimento “Divorzio tra stranieri, qual è il Giudice competente?”) al momento della conclusione dell’accordo, o
b) della legge dello Stato dell’ultima residenza abituale dei coniugi se uno di essi vi risiede ancora al momento della conclusione dell’accordo, o
c) della legge dello Stato di cui uno dei coniugi ha la cittadinanza al momento della conclusione dell’accordo, o
d) della legge del foro (ovvero della legge dello Stato di cui cui viene adita l’autorità giurisdizionale).

Nell’ambito di tale elenco, tassativamente predeterminato dal Regolamento, le parti hanno quindi la possibilità di accordarsi sulla legge che verrà applicata al loro divorzio, prediligendo quella che meglio si adatta alle loro esigenze.

E’, quindi, di primaria importanza che i coniugi, al momento della scelta della legge applicabile al loro divorzio, siano correttamente informati dal loro difensore sugli aspetti essenziali delle diverse leggi nazionali applicabili al caso specifico, al fine di poter operare al meglio una scelta consapevole ed informata, a tutela dei propri interessi e nel rispetto della normativa vigente.

Le disposizioni di cui al richiamato Regolamento hanno peraltro carattere universale, ovvero, non solo si applicano a prescindere dalla nazionalità dei coniugi, ma consentono agli stessi di poter indicare anche la legge di uno Stato non appartenente all’Unione Europea o non aderente al Regolamento, purché nell’ambito del tassativo elenco sopra specificato.

Ad esempio, il Tribunale di Padova, con sentenza del 8/09/2017, a fronte della domanda congiunta di divorzio promossa da due coniugi marocchini, ha ritenuto, sulla base dell’accordo raggiunto dalle parti, di poter applicare al caso concreto la legge del Marocco.
Ciò, ha consentito ai coniugi di poter ottenere il divorzio immediato, previsto dalla legislazione marocchina, senza alcuna preventiva separazione.

Infatti, come ormai pacificamente sancito dalla giurisprudenza anche in materia di riconoscimento delle sentenze straniere di divorzio, la circostanza che il nostro ordinamento imponga la preventiva pronuncia della separazione, non osta all’applicazione della disposizione straniera che preveda il divorzio immediato.
La concessione, in tali casi, del divorzio immediato non contrasta invero con alcun principio di ordine pubblico, purché il Giudice compia un rigoroso accertamento, nel rispetto del diritto di difesa delle parti, sull’esistenza di un irrimediabile disfacimento della comunione di vita e di affetti tra i coniugi (così ex multis Cass. Civ. 25/07/2006, n. 16978 e Tribunale di Parma, sentenza 9/06/2014).

Così, ad esempio, il Tribunale di Parma, nel caso di due coniugi, l’uno di nazionalità italiana l’altro spagnola, che avevano designato la legge spagnola quale legge applicabile al rapporto, ha pronunciato, ai sensi del Codice Civile spagnolo, il divorzio, senza preventiva separazione (così Tribunale di Parma, sentenza 9/06/2014).
Ed ancora, il Tribunale di Belluno, nel caso di due cittadini albanesi, coniugati in Albania ma stabilmente residenti in Italia, come concordemente richiesto dalle parti, ha pronunciato lo scioglimento del matrimonio secondo la legge albanese, che consente, su base consensuale, la pronuncia immediata di divorzio (così Tribunale di Belluno, sentenza 27/10/2016).

Occorre, però, precisare in che termini e con quale forma debba essere espressa la scelta della legge applicabile.

Per quanto riguarda il termine, l’art. 5 del Regolamento Roma III prevede che l’accordo con cui i coniugi designano la legge applicabile al loro divorzio possa essere concluso e modificato in qualsiasi momento, ma al più tardi nel momento in cui è adita l’autorità giurisdizionale, salvo che la legge del foro stabilisca che i coniugi possono formulare tale designazione anche nel corso del procedimento avanti al giudice.

Sul punto la nostra giurisprudenza ha chiarito che, oltre agli accordi intervenuti prima della domanda giudiziale, sono ritenuti validi anche gli accordi effettuati in corso di causa, ed in particolare fino al momento in cui è possibile per le parti integrare le proprie domande, ovvero fino alle memorie integrative di cui all’art. 709 c.p.c., comma 3 c.p.c., e di cui art. 4, comma 10, della legge sul divorzio (così Tribunale di Milano 10/02/2014 e Tribunale di Belluno 27/10/2016).

Con riferimento, invece, ai requisiti di forma, l’art. 7 del Regolamento Roma III stabilisce che è sufficiente che l’accordo delle parti sia redatto per iscritto, datato e firmato da entrambi i coniugi, salvo che la legge dello Stato membro non preveda requisiti di forma supplementari per tali accordi.

A tal proposito, l’ordinamento italiano non prevede ulteriori requisiti di forma rispetto alla forma scritta. Ed infatti sono state ritenute valide anche le semplici scritture private, senza necessaria trascrizione in atto pubblico, e gli accordi raggiunti anche non contestualmente o raccolti in documenti separati.

Cosa succede, però, quando i coniugi non effettuano alcuna valida scelta sulla legge applicabile, perché, ad esempio, sono in disaccordo sulla legge da designare o perché uno dei due è rimasto contumace?

In tali circostanze è l’art. 8 del Regolamento Roma III a stabilire una serie di criteri, con un preciso ordine gerarchico, volti ad individuare la legge applicabile alla separazione e al divorzio.

In particolare, in mancanza di una scelta operata dalle parti, il divorzio e la separazione sono disciplinati:
a) dalla legge dello Stato di residenza abituale dei coniugi nel momento in cui è adita l’autorità giudiziaria, o in mancanza
b) dalla legge dello Stato dell’ultima residenza abituale dei coniugi, sempre che tale periodo non si sia concluso più di un anno prima che fosse adita l’autorità giurisdizionale, se uno dei coniugi vi risiede ancora nel momento in cui viene adita l’autorità giurisdizionale, o in mancanza
c) dalla legge dello Stato di cui i coniugi sono cittadini nel momento in cui è adita l’autorità giurisdizionale (legge di comune cittadinanza dei coniugi), o in mancanza
d) dalla legge dello Stato in cui è adita l’autorità giurisdizionale (lex fori).

Nel caso di una coppia di coniugi stranieri, entrambi residenti in Italia, troverà, quindi, applicazione la legge italiana.

Sul punto, ad esempio, il Tribunale di Mantova, chiamato a pronunciarsi sul ricorso per lo scioglimento del matrimonio, promosso da una cittadina cinese contro il coniuge di medesima nazionalità rimasto contumace, ha senza dubbio stabilito la piena applicabilità della normativa italiana, in virtù di quanto previsto dal Regolamento UE n. 1259/2010 (così Tribunale di Mantova, sentenza 24/02/2016).

Per ulteriori approfondimenti sul tema è possibile consultare la pagina dedicata a Separazione e Divorzio.

Divorzio tra stranieri, qual è il Giudice competente?

Nella società attuale è frequente che a dissolversi siano matrimoni che presentano elementi di internazionalità, ovvero famiglie in cui uno od entrambi i coniugi sono cittadini extracomunitari o con cittadinanze tra loro diverse, oppure famiglie composte da cittadini italiani ma residenti all’Estero, oppure ancora matrimoni contratti in Paesi esteri.

Per affrontare correttamente la separazione ed il divorzio di tali unioni, il giurista deve porsi due domande preliminari: l’una relativa alla legge applicabile al caso concreto (cfr. l’approfondimento “Divorzio tra stranieri: qual è la legge applicabile?”), e l’altra relativa alla giurisdizione, ovvero se il giudice italiano abbia la competenza giurisdizionale a decidere sulla dissoluzione di tale nucleo familiare.

Ogni vertenza familiare comporta, poi, una molteplicità di domande che affiancano quella di separazione o di divorzio, come le questioni attinenti alla prole, al mantenimento del coniuge o all’addebito della separazione.
Ebbene, in materia di giurisdizione, tali domande, seppur presentate congiuntamente e scaturenti da una medesima situazione di fatto, devono essere esaminate separatamente, in quanto ognuno dei predetti aspetti soggiace ad una diversa disciplina legislativa.

In materia di separazione, divorzio o annullamento del matrimonio, la giurisdizione viene determinata sulla base dell’art. 3 del Regolamento CE n. 2201/2003, c.d. Bruxelles II bis, le cui disposizioni trovano applicazione indipendentemente dalla cittadinanza europea delle parti e prevalgono sulle norme di diritto internazionale privato (così, sul punto, sentenza Corte di Giustizia Europea 29/11/2007 caso Sundelind Lopez).
Invero, solo laddove il caso concreto non trovi un collegamento con alcuno dei criteri individuati dal predetto Regolamento, potrà farsi richiamo alla legge sul diritto internazionale privato (Legge 218/1995).

Ai fini dell’individuazione della giurisdizione, l’Art. 3 del predetto Regolamento prevede una serie di criteri, tra loro alternativi, sostanzialmente vertenti sul concetto di “residenza abituale”.

Vi sarà, quindi, competenza del giudice italiano, oltre che per i coniugi con cittadinanza italiana (art. 3, comma 1, lett. b Reg. CE 2201/2003), anche nel caso di soggetti di cittadinanza diversa se in territorio italiano si trova la residenza abituale dei coniugi oppure l’ultima residenza abituale dei coniugi, se uno di essi vi risiede ancora, oppure la residenza abituale del convenuto oppure, in caso di domanda congiunta, la residenza abituale di uno dei due coniugi oppure la residenza abituale dell’attore, se vi ha risieduto per un anno immediatamente prima della domanda o sei mesi, nel caso in cui l’attore sia anche cittadino italiano (art. 3, comma 1, lett. a) Reg. CE 2201/2003).

Anche l’art. 8 del sopra citato Regolamento, che regola la competenza a decidere sulle questioni relative a responsabilità genitoriale ed affidamento della prole verte essenzialmente sul concetto di “residenza abituale”, ma questa volta con esclusivo riferimento al minore.
Quindi, tutte le questioni relative ad un minore abitualmente residente in Italia dovranno essere decise dal giudice italiano.

Con riferimento all’eventuale richiesta di addebito della separazione, occorre precisare che, mentre l’orientamento maggioritario, ritenendo la richiesta di addebito inscindibile ed accessoria alla pronuncia di separazione, ne concentra la giurisdizione in capo al medesimo giudice competente in virtù del Regolamento Bruxelles II bis (così Tribunale di Roma 5/06/2015 e Tribunale di Belluno 13/06/2017), altra parte della giurisprudenza ritiene tale domanda estranea all’ambito di applicazione del predetto provvedimento e riconducibile invece, per quanto attiene la determinazione della giurisdizione, all’alveo del Regolamento UE n. 1215/2012, concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale (così Tribunale di Tivoli).

Per quanto riguarda, infine, le obbligazioni alimentari o di mantenimento, sia del coniuge che dei figli, ai fini della determinazione del giudice competente assume rilievo il Regolamento CE n. 4/2009, che come il Bruxelles II bis, trova applicazione anche alle ipotesi di soggetti extracomunitari e prevale sulle norme di diritto internazionale privato.

In particolare l’art. 3 del predetto Regolamento, che disciplina la competenza generale, stabilisce al comma 1, lettere a) e b) due criteri alternativi di giurisdizione, relativi rispettivamente al luogo di “residenza abituale” del convenuto ed al luogo di “residenza abituale” del creditore, oppure alle successive lettere c) e d) del medesimo comma prevede un criterio di concentrazione della giurisdizione, qualora la causa di mantenimento risulti accessoria rispetto ad una causa sullo stato delle persone o ad un procedimento relativo alla responsabilità genitoriale.

In sintesi, su tali questioni, vi sarà competenza del giudice italiano, quando la domanda di mantenimento risulti accessoria ad una domanda di separazione, divorzio o di affido di minore pendente avanti al medesimo giudice, ovvero quando siano situate sul territorio italiano la residenza abituale del debitore o del creditore.

Vista la rilevanza attribuita dalla normativa sopra richiamata al concetto di “residenza abituale”, può essere utile, in conclusione, ricostruire come la giurisprudenza italiana abbia interpretato tale nozione, sulla base del diritto internazionale e dell’Unione Europea.

A tal proposito la Corte di Cassazione ha chiarito che per “residenza abituale” dei coniugi non si fa riferimento al dato della residenza anagrafica o formale ma al luogo del concreto e continuativo svolgimento della vita personale ed eventualmente lavorativa (cosi Cass. Civ., Sezioni Unite, 17/02/2010, n. 6380), e per “residenza abituale” del minore deve intendersi, a prescindere dalla residenza anagrafica, “il luogo in cui il minore trova e riconosce, anche grazie ad una permanenza tendenzialmente stabile, il centro dei propri legami affettivi, non solo parentali, originati dallo svolgersi della sua vita di relazione” (così Cass. Civ., Sezioni Unite, 30/03/2018, n. 8042).

Per ulteriori approfondimenti è possibile consultare la pagina del sito dedicata a Separazione e Divorzio.

Figlio non riconosciuto e testimonianza madre

Nelle cause di dichiarazione giudiziale di paternità promosse dal figlio maggiorenne, la madre può essere testimone della relazione sentimentale e sessuale intrattenuta con il presunto padre.

L’art. 269 c.c. stabilisce invero che la prova della paternità può essere data con ogni mezzo. Quindi il Giudice può trarre il proprio convincimento sull’esistenza del rapporto di filiazione da ogni mezzo di prova, comprese le testimonianze de relato, il comportamento processuale delle parti e le risultanze dotate di mero valore indiziario.

Ed infatti, nonostante ad oggi la giurisprudenza ritenga che lo strumento più idoneo a provare la paternità sia la consulenza tecnica genetica, è considerato valido indizio, su cui fondare il convincimento circa la sussistenza del rapporto di filiazione, il rifiuto del padre di sottoporsi al test del DNA (cfr. ex multis Cass. Civ., Sez. I, 21/12/2015 n. 25675).

L’unico limite posto dal Legislatore è quello contenuto nell’ultimo comma dell’art. 269 c.c., che afferma che la sola dichiarazione della madre e la sola esistenza di rapporti tra la madre e il preteso padre all’epoca del concepimento non costituiscono prova della filiazione.
Tali circostanze, però, ben possono concorrere con gli altri elementi probatori a sostegno del convincimento del Giudice in ordine alla sussistenza della paternità.

Nel processo per dichiarazione giudiziale di paternità promosso dal figlio maggiorenne, quindi, la madre è ritenuta capace di testimoniare e le sue dichiarazioni possono essere utilizzate ai fini della decisione, in concorso con le altre risultanze, anche indiziarie, emerse nel corso del giudizio.

Sul punto, invero, la Suprema Corte ha chiarito che nel giudizio di dichiarazione giudiziale di paternità, promosso da soggetto maggiorenne, vada esclusa ogni valutazione sulla capacità a testimoniare della madre naturale ai sensi dell’art 246 c.p.c., in quanto la madre non è parte del giudizio (così ex multis Cass. Civ., Sez. I , 17/07/2012, n. 12198).
Nella sopra richiamata sentenza viene infatti precisato che la madre “non può essere litisconsorte necessaria, in quanto legittimato passivo è il solo genitore, (ed in mancanza i suoi eredi) nei confronti del quale si intende accertare la filiazione (Cass. 3143 del 1994, S.U. 21287 del 2005), né legittimata attiva, quando il figlio naturale abbia raggiunto la maggiore età. La corretta configurazione della sua posizione processuale può essere desunta dall’interpretazione coordinata dell’art. 276 c.c. u.c. e art. 269 c.c.. L’art. 276 c.c., u.c., stabilisce che alla domanda può contraddire “chiunque ne abbia interesse”. Secondo l’orientamento di questa sezione (Cass. 8355 del 2007) tale norma prefigura un intervento principale, regolato dall’art. 105, primo comma cod. proc. civ. e non meramente adesivo” (così Cass. Civ., Sez. I , 17/07/2012, n. 12198).

Per ulteriori approfondimenti sui temi trattati è possibile consultare le pagine del sito dedicate al diritto al risarcimento del figlio non riconosciuto ed ai diritti dei minori.

Nuovo figlio e riduzione del contributo al mantenimento

Nella società attuale, caratterizzata dalla pluralità delle relazioni familiari, capita sempre più spesso che coppie, formate da partner provenienti da precedenti rapporti coniugali o di convivenza, decidano di consolidare il proprio rapporto con la nascita di un nuovo figlio.

Ciò influisce sulle precedenti relazioni familiari della coppia? In particolare: la nascita di un figlio dalla nuova relazione sentimentale può avere qualche rilevanza sul mantenimento del coniuge o dei figli nati dal precedente rapporto?

La giurisprudenza è ormai consolidata nel ritenere che la nascita di un figlio da una nuova relazione di coppia possa incidere, senza ovviamente eliderlo, sul contributo al mantenimento corrisposto per i figli nati dal precedente rapporto sentimentale.

A tal proposito la Suprema Corte ha, a più riprese, sancito che “la formazione di una nuova famiglia e la nascita di figli dal nuovo partner, pur non determinando automaticamente una riduzione degli oneri di mantenimento dei figli nati dalla precedente unione, deve essere valutata dal Giudice come circostanza sopravvenuta che può portare alla modifica delle condizioni originariamente stabilite, in quanto comporta il sorgere di nuovi obblighi di carattere economico” (così ex multis Cass. Civ., Sez. VI-1, ord. 12/07/2016, n. 14175; Cass. Civ., 28/09/2015, n. 19194; Cass. Civ, 11/04/2011, n. 8227).

Può essere, quindi, promossa una richiesta di modifica del contributo al mantenimento dei figli nati dalla precedente relazione, laddove il genitore abbia subito un peggioramento della propria condizione economica, conseguente ai maggiori oneri economici derivanti dalla nascita del nuovo figlio, che renda gravoso l’adempimento degli obblighi di contribuzione precedentemente assunti.

La Corte di Cassazione ha poi stabilito che il predetto criterio debba, evidentemente, riflettersi anche sul contributo al mantenimento del coniuge.

Pertanto, la formazione di una nuova famiglia, diritto inviolabile dell’individuo, per i maggiori oneri economici che comporta a carico della parte, può determinare e giustificare una richiesta di revoca o di diminuzione del contributo al mantenimento corrisposto a favore del precedente coniuge (così Cass. Civ., Sez. I, 13/01/2017, n. 789).

Assegno di divorzio e sacrifici del coniuge

Assegno di divorzio e sacrifici del coniuge: il caso “Berlusconi Lario”

La pubblicazione della recente pronuncia sul “Divorzio Berlusconi – Lario”, con cui la Corte di Cassazione (Cass. Civ., Sez. I, ordinanza 30/08/2019, n. 21926) ha confermato la decisione emessa dalla Corte d’Appello di Milano di revocare l’assegno di divorzio da 1 milione e 400 mila euro mensili stabilito dal Tribunale di Monza a favore dell’ex moglie, consente di fare il punto sulle prime applicazioni concrete del nuovo orientamento interpretativo espresso in materia di assegno divorzile dalla Suprema Corte con la ormai nota sentenza n. 18287/2018.

Nella decisione sul “Divorzio Berlusconi – Lario”, la Corte di Cassazione ha in particolare dato rilievo al patrimonio personale, composto anche da immobili e gioielli di ingente valore, che la moglie si sarebbe formata nel corso della ventennale vita matrimoniale, attingendo unicamente alle risorse economiche del marito.

Secondo i Giudici della Suprema Corte l’entità di tale patrimonio, in grado di farle vivere “in agiatezza” il divorzio, sarebbe tale da compensare anche i sacrifici fatti dall’ex moglie in ambito professionale.

La Suprema Corte ha invero precisato che “le varie acquisizioni economico patrimoniali pervenute alla ricorrente durante il matrimonio hanno compensato anche il sacrificio delle sue aspettative professionali”. Nel suo ricorso in Cassazione la ricorrente aveva infatti sottolineato di aver “rinunciato in giovane età alla carriera di attrice per dedicarsi interamente alla casa, alla famiglia e all’allevamento dei tre figli”.

Dopo l’intervento delle Sezioni Unite ed in linea con l’orientamento sopra espresso della Corte di Cassazione, la giurisprudenza di merito ha, a sua volta, confermato che per il riconoscimento di un assegno divorzile in capo al coniuge richiedente è necessario che venga provato un rilevante divario nella situazione economica delle parti e che tale divario sia conseguente al sacrificio delle aspirazioni professionali compiuto dal coniuge durate il matrimonio, sempre che tale sacrificio abbia contribuito alla formazione o all’aumento del patrimonio dell’altro coniuge (cfr. sul punto Tribunale di Bologna, sentenza n. 1432 del 14/06/2019; Corte d’Appello di Napoli, 10/01/2019; Tribunale di Treviso, 8/01/2019; Fam. e Dir. n. 8-9, 1/08/2019).

La Corte d’Appello di Napoli, ad esempio, in applicazione dei suddetti principi, ha rigettato la domanda di assegno divorzile in un caso in cui, seppur in presenza di un marcato squilibrio fra la situazione patrimoniale e reddituale dei coniugi, tale divario non era risultato causalmente riconducibile ad alcun sacrificio fatto dal coniuge a favore della famiglia, poiché, nonostante la lunga durata del matrimonio (25 anni), entrambe le parti avevano già compiuto prima del matrimonio le rispettive scelte professionali e dall’unione non erano nati figli (cfr. Corte d’Appello di Napoli, sentenza 10/01/2019).

E’ possibile sul punto consultare il nostro approfondimento su assegno di divorzio e disparità economica tra i coniugi e la pagina del sito dedicata a Separazione e divorzio.

Diritto al risarcimento del danno del figlio non riconosciuto

Il diritto al risarcimento del danno del figlio non riconosciuto

La sentenza n. 697/2019, con cui la Corte d’Appello di Bologna, in materia di dichiarazione giudiziale di paternità, ha confermato il diritto della figlia al risarcimento del danno non patrimoniale subito in conseguenza del mancato riconoscimento da parte del padre e dell’assenza di un solido rapporto con quest’ultimo.

Nel caso esaminato dalla Corte d’Appello di Bologna il diritto della figlia al risarcimento del danno nasceva proprio dalla privazione della figura paterna che il padre le aveva inflitto.

Si è infatti accertato che il genitore, pur consapevole del rapporto di filiazione, non si è mai comportato da padre né in privato né nella sfera sociale, cagionando dunque nella figlia una grave sofferenza per la consapevolezza di non essere stata desiderata ed accolta come tale.

La Corte d’Appello di Bologna ha, dunque, confermato l’orientamento già espresso dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 26205/2013, in cui si è affermata l’esistenza di un “automatismo tra procreazione e responsabilità genitoriale, declinata secondo gli obblighi specificati negli artt. 147 e 148 c.c., che costituisce il fondamento della responsabilità aquiliana da illecito endofamiliare, nell’ipotesi in cui alla procreazione non segua il riconoscimento e l’assolvimento degli obblighi conseguenti alla condizione di genitore”.

Con la successiva sentenza n. 3079/2015, la Corte di Cassazione ha altresì sancito che “il disinteresse mostrato da un genitore nei confronti di una figlia naturale integra la violazione degli obblighi di mantenimento, istruzione ed educazione della prole, e determina la lesione dei diritti nascenti dal rapporto di filiazione che trovano negli articoli 2 e 30 della Costituzione – oltre che nelle norme di natura internazionale recepito nel nostro ordinamento – un elevato grado di riconoscimento e tutela, sicché tale condotta è suscettibile di integrare gli estremi dell’illecito civile e legittima l’esercizio, ai sensi dell’art. 2059 cod. civ., di un’autonoma azione volta al risarcimento dei danni non patrimoniali sofferti dalla prole

In sintesi, per effetto della semplice procreazione il figlio acquisisce il diritto di essere mantenuto ed educato dai propri genitori e di condividere con gli stessi la relazione filiale, sia nella sfera privata ed affettiva, sia in ambito sociale. Ciò a prescindere dal riconoscimento o dalla dichiarazione giudiziale di paternità.

La violazione di tale diritto da parte del genitore costituisce quindi un grave inadempimento agli obblighi sanciti dalla Costituzione, dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e dalla Convenzione di New York sui diritti del Fanciullo del 1989.

A tale inadempimento consegue, pertanto, il diritto del figlio al risarcimento del danno, quando il comportamento del genitore abbia determinato un vuoto affettivo e sociale nel figlio.

In allegato il testo integrale della sentenza. E’ inoltre consultabile il nostro approfondimento Figlio non riconosciuto e testimonianza della madre, nonchè l’area tematica Diritto dei minori.

Assegno divorzio e disparità economica coniugi

Assegno di divorzio e disparità economica tra i coniugi

Alla luce della sentenza n. 18287/2018, con cui la Corte di Cassazione, a Sezione Unite, è intervenuta sul tema dell’assegno divorzile, l’accertamento preliminare sull’esistenza di una significativa disparità economica, reddituale e patrimoniale tra i coniugi al momento del divorzio, costituisce presupposto per l’eventuale riconoscimento dell’assegno.

La Corte di Cassazione ha, infatti, offerto una rilettura delle norme contenute nell’art. 5 della legge sul divorzio (Legge 898/70), orientata a riconoscere all’assegno di divorzio diverse funzioni, tra cui quella assistenziale, qualora un coniuge si trovi del tutto sprovvisto di redditi o mezzi autonomi, e quella perequativa – compensativa, volta a compensare il contributo dato da uno dei coniugi alla famiglia, sacrificando le proprie aspettative professionali, e grazie a cui l’altro abbia potuto incrementare la propria capacità lavorativa e di reddito.

In particolare la Corte di Cassazione ha chiarito che, ai fini della valutazione circa la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento dell’assegno di divorzio, il Giudice deve condurre un giudizio unitario, accertando preliminarmente l’esistenza e l’entità di uno squilibrio, determinato dal divorzio, tra i mezzi a disposizione di entrambi i coniugi, e, di seguito, in che misura tale eventuale squilibrio sia dipendente dalle scelte di conduzione di vita familiare adottate e condivise in costanza di matrimonio, con il conseguente sacrificio delle aspettative professionali e reddituali di una delle parti.

Secondo le Sezioni Unite il predetto giudizio deve comporsi di tre momenti fondamentali: il primo volto all’accertamento dell’eventuale esistenza ed entità dello squilibrio patrimoniale tra i coniugi; il secondo attinente all’accertamento del nesso causale tra tale eventuale disparità e gli indicatori previsti dalla legge; il terzo volto a determinare l’importo perequativo-compensativo dell’assegno nel caso concreto.

Con la sentenza n. 1432/2019, il Tribunale Civile Di Bologna recepisce tale orientamento, sancendo l’insussistenza del diritto all’assegno divorzile nei casi in cui manchi una “effettiva disparità economica – patrimoniale tra le parti, tale da giustificare l’attribuzione ad uno degli ex coniugi di un emolumento economico per solidarietà post – coniugale”.

Nel caso in esame, invero, il Tribunale aveva accertato che entrambi i coniugi, ormai pensionati, erano gravati da numerosi debiti assunti in costanza di matrimonio, con la conseguenza che la situazione economica e patrimoniale delle parti appariva sostanzialmente equivalente.

Per tale motivo, “in assenza di un apprezzabile squilibrio”, che veda uno dei coniugi “in posizione significativamente deteriore, manca il presupposto fondamentale ed imprescindibile per riconoscere in favore dell’attrice un emolumento economico da parte dell’ex coniuge”.

In allegato il testo integrale della sentenza. E’ inoltre possibile consultare il nostro approfondimento Assegno di divorzio e sacrifici del coniuge: il caso “Berlusconi Lario”, nonchè l’area tematica Separazione e divorzio.