Il comodato della casa familiare

Il comodato della casa familiare

Accade frequentemente che l’immobile utilizzato dalla coppia come abitazione familiare sia stato concesso in comodato gratuito dai genitori di uno dei due partner.

Il comodato è un contratto tipico, essenzialmente gratuito, previsto dal Legislatore agli artt. 1803 e seguenti del codice civile, con cui “una parte (il comodante) consegna ad un’altra (il comodatario) una cosa mobile o immobile, affinché se ne serva per un tempo o per un uso determinato, con l’obbligo di restituire la stessa cosa ricevuta”.

Dottrina e giurisprudenza, sulla base delle norme codicistiche che disciplinano la restituzione del bene concesso in comodato, hanno individuato tre tipologie di comodato:

1. il comodato cd. “a termine”, ovvero quella fattispecie in cui, ai sensi dell’art. 1809, comma 1, c.c., la restituzione del bene da parte del comodatario deve avvenire alla scadenza del contratto;

2. il comodato che, sebbene non sia stato previsto un termine determinato, è stato concesso per un fine/uso determinato, espressamente pattuito o desumibile dal contratto stesso (ad esempio per le esigenze della famiglia). In tal caso la restituzione del bene deve avvenire al termine dell’uso convenuto;

3. il comodato cd. “precario”, ovvero quella fattispecie in cui non è stato pattuito alcun termine di durata né è possibile desumere dal contratto l’uso convenuto. In tal caso, ai sensi dell’art. 1810 c.c., la restituzione deve avvenire non appena il comodante ne faccia richiesta.Va, comunque, ricordato che, come previsto dall’art. 1809, comma 2, c.c., anche prima della scadenza del termine ovvero prima che il comodatario abbia cessato di servirsi della cosa sulla base dell’uso convenuto, il comodante potrà richiedere la restituzione del bene, qualora allo stesso sopraggiunga un bisogno “urgente ed impreveduto.

In tutte le ipotesi, quindi, in cui un immobile venga, senza previsione di un termine, concesso in comodato ad un figlio affinché vi abiti con il proprio nucleo familiare, per determinare il momento in cui il proprietario potrà pretendere la restituzione del bene, occorrerà valutare se dal contratto sia desumibile o meno l’intento del comodante di concedere l’immobile al comodatario affinché soddisfi le proprie esigenze familiari, adibendolo a propria abitazione familiare.
In tal caso, invero, la restituzione potrà avvenire solo quando siano cessate le esigenze familiari del comodatario.

L’ipotesi, certamente, più problematica è rappresentata da quelle fattispecie di comodato cd. “precario”, in cui, oltre a non essere stabilito alcun termine, non è stato neppure convenuto alcun uso preciso.
In tema di comodato, la giurisprudenza è stata, invero, chiamata ad esprimersi sulla possibilità per il proprietario (solitamente il genitore di uno dei partner) di richiedere la restituzione del bene, allo sciogliersi della relazione sentimentale, quando la propria abitazione venga assegnata, in sede di separazione o divorzio, non al proprio parente ma all’altro coniuge.

I Giudici hanno, in questi casi, ritenuto che, laddove il comodatario riesca a provare che il contratto non era precario ma concesso per le esigenze della famiglia, il vincolo sul bene non possa risolversi a richiesta del comodante, ma solo al venir meno delle esigenze familiari (così ex multis Cass. Civ., Sez. Un., sentenza n. 20448/2014).

Infatti come ribadito da Cass. Civ., 2/02/2017, sentenza n. 2771, nel caso manchi espressamente un termine di durata, la scadenza contrattuale può evincersi per relationem dalla destinazione a casa familiare, con la conseguenza che il comodante, al di fuori di un bisogno imprevisto ed urgente, non possa richiedere la restituzione del bene, finché perduri la destinazione del bene a casa familiare.

E’, però, necessario che sussista in capo al soggetto che pretende di abitare l’immobile, dopo lo scioglimento del legame sentimentale, un provvedimento giudiziale che preveda espressamente l’assegnazione dell’immobile allo stesso.

Amministrazione di sostegno e testamento biologico

Amministrazione di sostegno e testamento biologico

Nel nostro precedente contributo, ci si è occupati dell’istituto dell’Amministrazione di Sostegno, analizzando il forte impatto che un tale strumento ha avuto nell’ambito della tutela dei soggetti bisognosi. In particolare, attraverso la Legge n. 6/2004, il legislatore ha introdotto, senza sostituire i precedenti strumenti dell’interdizione e dell’inabilitazione, una nuova forma di tutela, focalizzata sulla protezione degli interessi del soggetto beneficiario, idonea a garantire l’elasticità e la flessibilità necessarie ad assicurare la massima esplicazione di tale finalità.

In questo quadro generale, l’istituto dell’amministrazione di sostegno ha rivestito un ruolo di peculiare rilievo nella valorizzazione delle cd. Disposizioni Anticipate di Trattamento (D.A.T.), atti nei quali il soggetto manifesta le proprie volontà in relazione alle conseguenze di una malattia, attuale o futura, che conduca a determinate conseguenze, in prospettiva di trovarsi nelle condizioni di non poter compiere tali scelte al momento necessario, per sopravvenuta incapacità di intendere e volere.

Prima di analizzare il ruolo centrale dell’amministrazione di sostegno nell’ambito del cd. testamento biologico, occorre una breve premessa di inquadramento della questione.

Le disposizioni in ordine ai trattamenti sanitari sono libere, consapevoli e disponibili, rinvenendosi negli artt. 2, 13 e 32 della Costituzione, nonché negli artt. 1, 2 e 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, il diritto di ogni individuo all’autodeterminazione terapeutica. In particolare, nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato del soggetto destinatario, ad eccezione dei casi previsti dalla legge. Questi ultimi devono consistere, in ogni caso, in trattamenti obbligatori espressamente e tassativamente previsti, nell’interesse della salute del beneficiario o della collettività e non possono mai travalicare i limiti della dignità umana (art. 1 l. 219/2017).

Prima dell’intervento della norma di riforma, giurisprudenza e dottrina si sono divise in merito alla possibilità per il malato di rifiutare trattamenti terapeutici salvifici, in assenza dei quali lo stesso sarebbe andato incontro al fine vita.

Taluno, invero, sosteneva che il diritto a rifiutare le cure non potesse spingersi sino al rifiuto di trattamenti salvifici, in quanto la disponibilità del diritto alla salute e del diritto a curarsi non poteva trasformarsi in diritto a “lasciarsi morire”. Pertanto, la disponibilità del consenso alle cure mediche, secondo tale orientamento, rinveniva un limite nel diritto alla vita, diritto fondamentale ed indisponibile. Secondo altri, al contrario, il limite della dignità umana fissato dall’art. 32 Cost. avrebbe dovuto interpretarsi nel senso di garantire a ciascuno il diritto di condurre un’esistenza libera e dignitosa, il che comprenderebbe al suo interno il diritto di rifiutare cure mediche salvifiche, che tuttavia garantiscono il mero sostentamento e la mera permanenza in vita in condizioni da non tutti accettate come dignitose.

Nella risoluzione del dibattito, un ruolo fondamentale è stato svolto dalla giurisprudenza e dal legislatore in seguito, il quale ha per gran parte recepito l’orientamento già delineatosi in seno alla prima.

In particolare, nei casi Welby ed Englaro, la giurisprudenza è giunta ad ammettere la possibilità per il malato di esprimere un “dissenso informato”, ossia il rifiuto alle cure mediche anche laddove quest’ultimo conduca al fine vita. Il dissenso espresso nei confronti di trattamenti salvifici, tuttavia, non deve essere confuso con l’eutanasia, tutt’oggi vietata dall’ordinamento.

Nel caso Englaro, nella specie, la giurisprudenza si è dovuta confrontare con l’ulteriore problema della capacità dei rappresentanti del soggetto incapace di esprimere, nell’interesse di quest’ultimo, il consenso o il dissenso alle cure mediche, a fronte dell’incapacità da parte dello stesso di provvedere in tal senso. In particolare, ci si è chiesti se il beneficiario di amministrazione di sostegno possa essere sostituito dall’amministratore nelle scelte che risultino espressione di “atti personalissimi”, tra i quali ritenere inclusi anche gli atti di assenso o dissenso rispetto alle cure mediche. L’orientamento costante nella dottrina e nella giurisprudenza afferma, invero, che tali atti, essendo riconducibili alla sfera più intima ed individuale dell’uomo, non sono suscettibili di rappresentanza. Sicché, l’amministratore di sostegno non potrebbe sostituirsi al beneficiario, incapace di intendere e volere, nell’esprimere determinate scelte il luogo di quest’ultimo.

Tuttavia, tale presa di posizione con riguardo a taluni diritti fondamentali della persona, se, da un lato, tutela il beneficiario da illegittime intrusioni nella propria sfera più intima, dall’altro, non ammettendosi rappresentanza, finisce per limitare la stessa capacità giuridica dell’individuo, rendendo di fatto taluni diritti non esercitabili, pur rivestendo gli stessi primaria rilevanza.

Per tale ragione, la Cassazione, nel richiamato caso Englaro (Cass. 16 ottobre 2007, n. 21748), ha introdotto una distinzione tra rappresentanza come sostituzione del soggetto incapace e rappresentanza come espressione della volontà del soggetto stesso. Il rappresentante, pertanto, dovrebbe costituire un nuncius delle volontà del rappresentato, esprimendo determinate scelte mediante “la funzionalizzazione del potere di rappresentanza, dovendo esso essere orientato alla tutela del diritto alla vita del rappresentato”. La Cassazione procede, poi, ad una rigorosa individuazione dei presupposti in presenza dei quali il rappresentante può esprimere, ed il giudice accogliere, determinate scelte.

L’orientamento si qui illustrato della Corte di legittimità risulta, ad oggi, recepito dal legislatore, intervenuto sul tema con la Legge 219/2017.

In primo luogo, all’art. 1 commi 5 e 6, la norma dispone che “Ogni persona capace di agire ha il diritto di rifiutare, in tutto o in parte […] qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario indicato dal medico per la sua patologia o singoli atti del trattamento stesso […]. Ai fini della presente legge, sono considerati trattamenti sanitari la nutrizione artificiale e l’idratazione artificiale, in quanto somministrazione, su prescrizione medica, di nutrienti mediante dispositivi medici. Qualora il paziente esprima la rinuncia o il rifiuto di trattamenti sanitari necessari alla propria sopravvivenza, il medico prospetta al paziente e, se questi acconsente, ai suoi familiari, le conseguenze di tale decisione e le possibili alternative e promuove ogni azione di sostegno al paziente medesimo, anche avvalendosi dei servizi di assistenza psicologica. […]. Il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo e, in conseguenza di ciò, è esente da responsabilità civile o penale”. Il legislatore, ha pertanto, fatto proprio l’orientamento secondo cui il dissenso informato può includere anche il rifiuto di cure salvifiche.

Inoltre, quanto al ruolo ricoperto dall’amministratore di sostegno, la norma ha previsto che “Nel caso in cui sia stato nominato un amministratore di sostegno la cui nomina preveda l’assistenza necessaria o la rappresentanza esclusiva in ambito sanitario, il consenso informato è espresso o rifiutato anche dall’amministratore di sostegno ovvero solo da quest’ultimo, tenendo conto della volontà del beneficiario, in relazione al suo grado di capacità di intendere e di volere” (art. 3 co. 4).

Infine, l’ulteriore passo avanti compiuto dalla novella attiene alla possibilità per soggetto di disporre, ora per allora, in previsione di una futura, eventuale incapacità di autodeterminarsi, in ordine alle proprie volontà in materia di trattamenti sanitari, attraverso le D.A.T. Queste ultime, in particolare, prevedono la nomina di un fiduciario, un soggetto incaricato di far valere i rispettare le scelte compiute dal soggetto quando ancora capace di intendere e volere, le quali risultano vincolanti per il medico, ad eccezione dei casi espressamente previsti.

Per ulteriori approfondimenti sul tema è possibile consultare sul sito la pagina dedicata all’istituto dell’Amministrazione di Sostegno e quella sulla tutela del beneficiario.

Genitore pubblica on line le foto del figlio

Cosa succede al genitore che pubblica on line le foto del figlio

Cosa accade al genitore che pubblica online le foto del figlio minorenne?
Postare sul web le fotografie dei propri figli ritratti nelle normali attività di vita quotidiana è comportamento ormai diffuso tra i “genitori dell’era digitale”.

L’opinione pubblica si sta però interrogando sulla correttezza di tale abitudine.

La polemica è in particolare scoppiata sul web dopo la nascita di Leone Lucia, il figlio del rapper Fedez e della blogger Chiara Ferragni. I genitori hanno infatti, da subito, iniziato a pubblicare sui social network, come Facebook o Instagram, le foto del bambino.

Il fenomeno, così diffuso, che tanto sta facendo parlare il popolo di Internet è approdato anche nelle aule dei nostri Tribunali, chiamati a valutare l’opportunità di tali comportamenti e gli eventuali rischi e pregiudizi che possono da essi derivare al minore.

A tal proposito vengono in rilievo l’art. 10 c.c., che tutela il diritto all’immagine, in particolare l’abuso dell’immagine altrui, la Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, che appresta a quest’ultimo tutela da interferenze arbitrarie nella sua vita privata, nonché il nuovo Regolamento Europeo n. 679/2016, in materia di protezione dei dati personali, il cui art. 8 ricomprende nella definizione di dato personale l’immagine fotografica, affermando altresì che la sua diffusione integra un’interferenza nella vita privata.

Molti genitori si sono, quindi, rivolti all’Autorità Giudiziaria per ottenere, ai sensi dell’art. 10 c.c., una pronuncia di cessazione dell’abuso (cd. inibitoria), ritenendo che la pubblicazione delle immagini dei propri figli per opera dell’altro genitore costituisca pregiudizio al decoro o alla reputazione del minore.

I Tribunali hanno avuto così modo di precisare che, prescindendo dal consenso di entrambi i genitori, requisito comunque necessario alla legittima pubblicazione delle foto del figlio, l’inserimento di foto di minori sui social network costituisce un intrinseco pericolo per il minore stesso (così ad esempio Tribunale di Mantova, decreto del 20/09/2017).

Ciò, invero, determinando la diffusione di immagini fra un numero non controllabile di persone, potrebbe esporre il bambino al rischio di contatto con soggetto malintenzionati o di quanti utilizzano le foto di minori reperite online per trarne materiale pedopornografico, mediante procedimenti di fotomontaggio, come più volte segnalato dagli organi di Polizia.

Il pericolo è intrinseco nella pubblicazione dell’immagine stessa e l’inibitoria e l’eventuale rimozione dei contenuti è da valutarsi a seconda del caso concreto.

Per non parlare della possibilità per il minore, in futuro, di promuovere un’azione di risarcimento del danno nei confronti dei genitori, tema di cui ci occuperemo nei prossimi approfondimenti.

Per approfondire il tema è consultabile sul sito la pagina dedicata ai Diritti dei minori.

Il nuovo art. 570 bis c.p.

Il nuovo art. 570 bis c.p.

Il d.lgs. 21/2018, attuativo della riserva di codice, entrata in vigore il 6 aprile 2018, ha introdotto nel codice penale il nuovo art. 570-bis c.p. intitolato “Violazione degli obblighi di assistenza familiare in caso di separazione o di scioglimento del matrimonio”. La nuova disposizione prevede che “Le pene previste dall’articolo 570 si applicano al coniuge che si sottrae all’obbligo di corresponsione di ogni tipologia di assegno dovuto in caso di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio ovvero vìola gli obblighi di natura economica in materia di separazione dei coniugi e di affidamento condiviso dei figli”.

In adempimento al disposto di cui al nuovo art. 3-bis c.p., con cui il legislatore ha deciso di auto vincolarsi ad una disciplina maggiormente organica ed accessibile del diritto penale, l’articolo di nuova introduzione dovrebbe costituire trasposizione, all’interno del codice penale, della vecchia disposizione di cui all’art. 12–sexies l. 898/1970, il quale prevedeva l’estensione delle pene di cui all’art. 570 c.p. all’ipotesi di “inosservanza dell’obbligo di corresponsione dell’assegno” da parte del genitore divorziato.
Tuttavia, sin dalla sua introduzione, la disposizione di nuovo conio ha sollevato questioni interpretative di particolare complessità, una delle quali attinente all’applicabilità della stessa al genitore che ometta di adempiere agli obblighi economici imposti in favore di figli nati da coppia non coniugata.

Invero, prima della modifica legislativa, la giurisprudenza, attraverso un’opera ermeneutica ormai ampiamente condivisa, era giunta ad estendere l’applicabilità del precedente art. 12-sexies l. 898/1970 anche a tali fattispecie attraverso il seguente ragionamento: l’art. 4 co. 2 l. 54/2004, sull’affido condiviso, stabiliva l’estensione ai procedimento relativi a figli di genitori non coniugati delle disposizioni contenute nella medesima legge, pertanto, anche dell’art. 3 della stessa, il quale a sua volta sanziona la violazione degli obblighi di natura economica in ipotesi di separazione, rinviando all’art. 12-sexies legge sul divorzio.

Orbene, il recente intervento legislativo ha introdotto l’art. 570-bis c.p. ed ha, al contempo, abrogato l’art. 3 e l’art. 12-sexies menzionati. Tuttavia, la nuova disposizione non opera alcun riferimento ai genitori di figli nati da coppie non coniugate, richiamando esclusivamente la condotta tenuta dal “coniuge”.
Quid iuris in relazione alla violazione degli obblighi economici da parte del genitore di figli di coppie conviventi more uxorio?

La risposta più immediata e diffusa in giurisprudenza è stata quella di ritenere inapplicabile la nuova disposizione a tali ipotesi, pena la violazione del divieto di analogia in malam partem vigente in materia penale. In particolare, il tenore letterale dell’art. 570-bis c.p. non consentirebbe di ritenervi incluse le condotte in parola, conducendo ad una sostanziale abolitio criminis della norma in parte qua.

A fronte di tale interpretazione, ben due Giudici di merito, il Tribunale di Nocera inferiore e la Corte d’Appello di Trento, hanno sollevato due distinte questioni di legittimità costituzionale, pur invocando parametri costituzionali differenti.

In particolare, il Tribunale di Nocera inferiore si è trovato ad occuparsi di un caso in cui l’imputato, dopo quattro anni di convivenza, aveva abbandonato la casa familiare, interrompendo ogni rapporto con la compagna (con cui non era sposato) e i due figli minori e, successivamente, aveva omesso di pagare l’assegno mensile posto a suo carico dal Tribunale per i Minorenni. Il Giudice a quo esclude che il nuovo art. 570-bis c.p. possa applicarsi anche a tale fattispecie, esulando una tale operazione ermeneutica dai limiti dell’interpretazione consentita in sede penale. Sicché, ravvisando la violazione dell’art. 3 Cost., il giudice solleva questione di legittimità costituzionale dello stesso art. 570-bis c.p., “nella parte in cui esclude dall’ambito di operatività della disciplina penale ivi prevista i figli di genitori non coniugati”.

Ancora, la Corte d’Appello di Trento, chiamata a pronunciarsi in relazione al fatto di un soggetto imputato dell’omesso versamento dei contributi a favore dei figli nati fuori dal matrimonio ex art. 12 sexies l. 898/70 oggi abrogato, ritiene che la nuova disposizione abbia determinato una riduzione dell’area penalmente rilevante, con conseguente parziale abolitio criminis delle relative condotte, oggi non più costituenti reato. Tuttavia, il Giudice a quo ravvisa in tale intervento di parziale abolitio la violazione degli artt. 25 e 77 Cost. segnatamente, la violazione del principio di riserva di legge per eccesso di delega da parte del legislatore delegato. Invero, è di comune interpretazione che la l. 103/2017 abbia autorizzato il Governo a un’opera di riordino della normativa penale in adempimento del nuovo art. 3- bis c.p., consentendo, dunque, esclusivamente una nuova collocazione delle precedenti fattispecie incriminatrici, prima previste da leggi speciali, all’intero del codice sostanziale. Nessuna abolitio era pertanto consentita al Governo. In tale parte, la nuova norma si pone in contrasto con la costituzione e, in particolare, con il principio di riserva di legge, da ritenersi, in materia penale, tendenzialmente assoluta.

Altra parte della giurisprudenza di merito ha tentato di fornire un’interpretazione adeguatrice del sistema normativo vigente, riconducendo la condotta del genitore che ometta il pagamento di assegni in favore di figli nati fuori dal matrimonio all’interno della disposizione di cui all’art. 570 c.p., opinando nel senso che la violazione degli obblighi di assistenza materiale nei confronti del figlio ben si può realizzare attraverso la mancata corresponsione dell’assegno di mantenimento fissato dal Tribunale civile (Trib. Treviso 2018, n. 554).

Infine, i Giudici di legittimità, chiamati ad occuparsi della questione, optano per un’interpretazione costituzionalmente orientata della nuova fattispecie, valorizzando l’intenzione del legislatore delegante e delegato al mero riordino della precedente disciplina, dalla quale non può ritenersi verificata, attraverso il meccanismo dell’abrogazione degli artt. 12-sexies l. 898/70 e 3 l. 54/2006, “un’abolizione delle corrispondenti figure di reato, transitate nel nuovo corpus normativo”. Infine, la Corte valorizza un’interpretazione sistematica della nuova norma la quale, interpretata secondo il solo senso letterale, si porrebbe in aperto contrasto con le norme di cui agli art. 337-bis e ss c.c. (Cass. sent. n. 55744/2018).

Amministrazione di sostegno e tutela del beneficiario

L’Amministrazione di sostegno e la tutela del beneficiario

L’amministrazione di sostegno, introdotta dalla legge n. 6/2004, che ha novellato gli artt. 404 e ss. del codice civile, rappresenta un istituto di protezione giuridica nei confronti di soggetti affetti da incapacità fisica o psichica, i quali non posso provvedere autonomamente, anche in via meramente parziale o temporanea, ai propri bisogni e alle proprie necessità.

La nuova figura giuridica ha affiancato i precedenti strumenti dell’interdizione e dell’inabilitazione, senza sostituirli, con l’intento di offrire uno strumento maggiormente focalizzato sulla tutela degli interessi del beneficiario. Invero, quest’ultimo risulta ad oggi al centro dell’attenzione del legislatore al punto da averne orientato le scelte nell’ambito delle recenti riforme, sostituendo il precedente interesse avuto di mira, quello del patrimonio.

Invero, gli altri strumenti, già previsti dal codice, dell’interdizione e dell’inabilitazione presentano caratteri di estrema rigidità, con riguardo sia ai presupposti applicativi, sia alle conseguenti limitazioni della capacità di agire che il soggetto interdetto o inabilitato subisce. Sicché, mediante il ricorso a tali istituti non sempre è possibile garantire il miglior interesse del soggetto beneficiario, in quanto la intrinseca rigidità del sistema non consente di modulare la misura limitativa nel rispetto delle reali esigenze di protezione di volta in volta emergenti. Infatti, all’epoca in cui vennero concepite, tali misure fungevano da strumenti volti non alla tutela dell’incapace, bensì alla protezione del patrimonio, avuto riguardo anche ai pregiudizi che gli atti conseguenti all’incapacità avrebbero potuto cagionare ai familiari del beneficiario.

Mediante l’introduzione dell’amministrazione di sostegno, il legislatore ha voluto fornire il Giudice e i privati di uno strumento nuovo, pensato e creato a mente delle reali esigenze di tutela del soggetto beneficiario, garantendo, a tal fine, la massima flessibilità dei presupposti applicativi e degli effetti conseguenti, così da permettere al Giudice, all’atto di nomina dell’amministratore, di stabilire punto per punto i compiti di quest’ultimo e le limitazioni del soggetto beneficiario. La nuova misura, infatti, persegue la finalità di “tutelare, con minore limitazione possibile della capacità di agire, le persone prive in tutto o in parte di autonomia, nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana, mediante interventi di sostegno temporaneo o permanente” (cfr. art. 1 l. 2004 n. 6). Tale intento legislativo emerge altresì dall’art. 406 c.c., nella parte in cui dispone che “la scelta dell’amministrazione di sostegno avviene con esclusivo riguardo alla cura e agli interessi della persona del beneficiario”.

Ciò che vale a distinguere l’amministrazione di sostegno dalle affini figure dell’interdizione e dell’inabilitazione non è, dunque, la maggiore e minore infermità che affligge il soggetto beneficiario, bensì un criterio funzionale, collegato alle reali esigenze che si intende di volta in volta perseguire, tenuto conto del fatto che le misure dell’interdizione e dell’inabilitazione rivestono carattere residuale.

La duttilità e l’elasticità dell’istituto emerge con chiarezza dalle disposizioni codicistiche.
In particolare, l’art. 405 co. 5 n. 3) e 4) c.c. prevede che il decreto di nomina deve indicare, tra l’altro, l’oggetto dell’incarico e gli atti che l’amministratore di sostegno ha il potere di compiere in nome e per conto del beneficiario, nonché degli atti che il beneficiario può compiere solo con l’assistenza dell’amministratore di sostegno.

Il decreto di nomina, pertanto, contiene, oltre all’indicazione precisa dei poteri e dei doveri dell’amministratore, anche le limitazioni alla capacità di agire del beneficiario. Sicché, a differenza di quanto accade con riferimento agli istituti dell’interdizione e dell’inabilitazione, i quali, una volta applicati, non consentono alcuna modulazione circa gli effetti da essi derivanti, il beneficiario dell’amministrazione di sostegno conserva ogni facoltà non espressamente indicata nel decreto tra quelle oggetto di limitazione. L’art. 409 c.c. dispone, invero, che l’amministrato “conserva la capacità di agire per tutti gli atti che non richiedono la rappresentanza esclusiva o l’assistenza necessaria dell’amministratore di sostegno. Il beneficiario dell’amministrazione di sostegno può in ogni caso compiere gli atti necessari a soddisfare le esigenze della propria vita quotidiana”. Così, anche la giurisprudenza di legittimità è costante nel ritenere che “tutto ciò che il giudice tutelare, nell’atto di nomina o in successivo provvedimento, non affida all’amministratore di sostegno, in vista della cura complessiva della persona del beneficiario, resta nella completa disponibilità di quest’ultimo” (Corte Cost. sent. n. 114/2019).

Muovendo da tale assunto, ci si è chiesti se l’amministrato conservi alcune capacità specifiche, quali la capacità di testare, quella di donare o quella di contrarre matrimonio. Sul punto, è interessante richiamare una recente pronuncia della Corte Costituzionale, sent. n. 114 del 2019, nella quale il Giudice delle leggi ha precisato che “il provvedimento di nomina dell’amministratore di sostegno, diversamente dal provvedimento di interdizione e di inabilitazione, non determina uno status di incapacità della persona […] a cui debbano riconnettersi automaticamente i divieti e le incapacità che il codice civile fa discendere come necessaria conseguenza della condizione di interdetto o di inabilitato”. Inoltre, la Corte ha evidenziato la tendenza che orienta il maggioritario orientamento della giurisprudenza di legittimità, da cui emerge che “l’amministrazione di sostegno si presenta come uno strumento volto a proteggere senza mortificare la persona affetta da una disabilità, che può essere di qualunque tipo e gravità (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 27 settembre 2017, n. 22602). La normativa che la regola consente al giudice di adeguare la misura alla situazione concreta della persona e di variarla nel tempo, in modo tale da assicurare all’amministrato la massima tutela possibile a fronte del minor sacrificio della sua capacità di autodeterminazione (in questo senso, Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenze 11 maggio 2017, n. 11536; 26 ottobre 2011, n. 22332; 29 novembre 2006, n. 25366 e 12 giugno 2006, n. 13584; ma si veda anche Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 11 settembre 2015, n. 17962)”.
Sulla scorta di tali premesse, quanto alla capacità di fare testamento, si ritiene che il beneficiario di amministrazione di sostegno conservi tale facoltà, laddove essa non sia espressamente limitata dal decreto di nomina. Invero, in primo luogo, l’art. 591 c.c. non comprende, tra i soggetti non ammessi a redigere testamento, il destinatario dell’amministrazione di sostegno. Inoltre, non si comprenderebbe l’esigenza, avvertita dal legislatore, di introdurre la precisazione di cui all’art. 411 co. 3 c.c. nell’ipotesi in cui si assumesse un’invalidità assoluta delle disposizioni testamentarie provenienti dall’amministrato.

Con riguardo, poi, alla capacità di donare, coerentemente con le conclusioni già raggiunte rispetto alla capacità di disporre per testamento, nella medesima sentenza la Corte Costituzionale ha affermato che “il beneficiario di amministrazione di sostegno conserva la sua capacità di donare, salvo che il giudice tutelare, anche d’ufficio, ritenga di limitarla – nel provvedimento di apertura dell’amministrazione di sostegno o in occasione di una sua successiva revisione – tramite l’estensione, con esplicita clausola ai sensi dell’art. 411, quarto comma, primo periodo, cod. civ., del divieto previsto per l’interdetto e l’inabilitato dall’art. 774, primo comma, primo periodo, cod. civ.”. Deve, invero, escludersi, per costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, che le limitazioni previste dal codice per l’interdizione e l’inabilitazione si estendano automaticamente anche all’amministrazione di sostegno.

Infine, con riguardo alla possibilità per il beneficiario di contrarre matrimonio, occorre svolgere le medesime considerazioni di fondo fino ad ora enunciate. Trattandosi di un diritto personalissimo, non suscettibile di rappresentanza, il diritto di contrarre matrimonio residua in capo all’amministrato ogni qual volta esso non sia espressamente escluso dal decreto di nomina. Opinando in senso contrario, si giungerebbe ad una indebita limitazione della capacità di agire del soggetto amministrato, la quale, a sua volta, si tradurrebbe, di fatto, in una limitazione della capacità giuridica, privando il soggetto di un diritto fondamentale senza che vi sia una reale esigenza in tal senso. Ciò si porrebbe in aperto contrasto con la ratio della legge che ha introdotto il nuovo istituto, posto a principale tutela del soggetto beneficiario. A conferma di tali conclusioni, la Corte Costituzionale ha ricordato che anche la Corte di Cassazione è giunta a ritenere che “al beneficiario di amministrazione di sostegno non si estende il divieto di contrarre matrimonio (atto personalissimo, al pari della donazione […]), previsto per l’interdetto dall’art. 85 cod. civ., salvo che il giudice tutelare non lo disponga esplicitamente con apposita clausola, ai sensi dell’art. 411, quarto comma, primo periodo, cod. civ.”.

Per maggiori informazioni è consultabile sul sito l’approfondimento Amministratore di sostegno e testamento biologico nonchè l’area tematica sull’amministrazione di sostegno.

Diritto all'anonimato della madre

Diritto all’anonimato della madre e diritto del figlio di conoscere le proprie origini

Il diritto all’oblio è un diritto fondamentale della persona e, in particolare, costituisce espressione di quel fenomeno conosciuto dai giuristi come emersione di “nuovi diritti”. Infatti, il diritto all’oblio rappresenta una specificazione del diritto fondamentale alla riservatezza e all’identità personale, riconosciuto e garantito dalla Costituzione, la cui esigenza di tutela è emersa nell’ultimo ventennio a seguito del progresso e dell’evoluzione sociale e tecnologica, nonché dell’apertura dell’ordinamento interno alle fonti sovranazionali, le quali talvolta introducono nuovi diritti, talaltra conferiscono nuova connotazione ai diritti fondamentali già presenti nel nostro sistema interno.

In relazione al diritto all’oblio, conosciuto anche come “diritto ad essere dimenticati”, una delle principali questioni che ha raggiunto le aule di giustizia attiene al diritto della madre naturale a mantenere l’anonimato a seguito del parto, a cui si contrappone, specie in tempi recenti, il diritto del figlio a conoscere le proprie origini. Anche quest’ultimo, invero, costituisce espressione di un diritto fondamentale della persona, segnatamente, del diritto all’identità personale, al pieno sviluppo ed estrinsecazione della persona, nonché del diritto del minore ad avere una famiglia.

Trattandosi di due diritti di pari rango, peraltro inerenti la sfera della personalità, al legislatore ed alla giurisprudenza è rimesso il compito di operare un bilanciamento e rinvenire un punto di equilibrio, laddove possa raggiungersi un’adeguata tutela dell’uno, con il minor corrispondente sacrificio dell’altro.

A tal proposito, il legislatore, intervenuto con la legge n. 184/1983 in materia di adozione e affidamento dei minori, optava per la massima tutela della riservatezza della madre, considerando il diritto di quest’ultima prevalente, in particolare, al fine di garantire la possibilità di partorire in strutture adeguate, mantenendo l’anonimato, a donne la cui condizione personale, sociale od economica non avrebbe consentito loro di tenere con sé il bambino. In tal senso, attraverso la tutela della madre, il legislatore intendeva perseguire un obiettivo di garanzia trascendente il singolo e operante su un piano di utilità sociale, quello della protezione delle nascite, dello sviluppo e della tutela della salute della gestante e della prole.
Invero, l’art. 28 della l. 184/1983 prevede la possibilità per figlio adottivo, compiuto il venticinquesimo anno di età, di accedere alle informazioni riguardanti le proprie informazioni biologiche, salvo che egli non sia stato riconosciuto alla nascita dalla madre naturale o che alcuno dei genitori biologici “abbia dichiarato di non voler essere nominato o abbia prestato in consenso all’adozione a condizione di rimanere anonimo”. Pertanto, la scelta compiuta dal legislatore si rivolge alla tutela dell’anonimato della madre, non prevedendo neppure alcuno strumento volto a verificare l’attualità e la persistenza di una volontà in tal senso. Attraverso l’irrevocabilità della scelta, infatti, si garantisce, da un lato, costante tutela alla madre, anche a distanza di anni dal parto, dall’altro, il diritto del figlio a non subire in futuro intrusioni nella proprie sfera personale da parte della madre in ipotesi di ripensamento.

Tuttavia, la scelta del legislatore, reputata legittima dalla Corte Costituzionale nel 2005, è stata rimessa in discussione da parte della Corte EDU nel 2012, quando la Corte dei diritti ha affermato che la legislazione italiana non tenta in realtà di operare alcun bilanciamento tra i fondamentali diritti che vengono in rilievo, optando, al contrario, per un’assoluta a cieca preferenza per gli interessi della madre. In tal senso, la Corte ha riscontrato una violazione dell’art. 8 CEDU.

Sulla scorta di tale decisione, la Corte Costituzionale, nuovamente invitata a pronunciarsi, ha dichiarato, con sentenza n. 278/2013, la parziale illegittimità costituzionale dell’art. 28 co. 7 l. 184/83, “nella parte in cui non prevede – attraverso un procedimento, stabilito dalla legge, che assicuri la massima riservatezza – la possibilità per il giudice di interpellare la madre – che abbia dichiarato di non voler essere nominata ai sensi dell’art. 30, comma 1, del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396” a seguito della richiesta del figlio di conoscere le proprie origini, al fine di verificare la persistenza e l’attualità della scelta dell’anonimato compiuta all’atto del parto. Nella medesima pronuncia, la Corte ha invitato il legislatore ad intervenire, colmando la alcuna normativa venutasi a creare.

Nonostante ciò, l’inerzia del potere legislativo perdura tutt’oggi, sicché è la giurisprudenza ad occuparsi della questione, nel tentativo di delinearne i delicati confini.

In particolare, le Sezioni Unite hanno affermato che “in tema di parto anonimo, per effetto della sentenza delle Corte cost. n. 278 del 2013, ancorché il legislatore non abbia ancora introdotto la disciplina procedimentale attuativa, sussiste la possibilità per il giudice, su richiesta del figlio desideroso di conoscere le proprie origini e di accedere alla propria storia parentale, di interpellare la madre che abbia dichiarato alla nascita di non voler essere nominata, ai fini di una eventuale revoca di tale dichiarazione, e ciò con modalità procedimentali, tratte dal quadro normativo e dal principio somministrato dalla Corte suddetta, idonee ad assicurare la massima riservatezza ed il più assoluto rispetto della dignità della donna, fermo restando che il diritto del figlio trova un limite insuperabile allorché la dichiarazione iniziale per l’anonimato non sia rimossa in seguito all’interpello e persista il diniego della madre di svelare la propria identità” (così Sez. Un. sent. n. 1946/2017).

Ulteriori pronunce della Suprema Corte, poi, proseguono nell’opera ermeneutica, in attesa dell’intervento legislativo, al fine di definire l’attuale sistema di tutele e conferire ad esso tratti sempre più chiari e certi.
Con la sentenza n. 3004 del 2018, i Giudici di legittimità hanno affermato che “nel caso di c.d. parto anonimo, sussiste il diritto del figlio, dopo la morte della madre, di conoscere le proprie origini biologiche mediante accesso alle informazioni relative all’identità personale della stessa, non potendosi considerare operativo, oltre il limite della vita della madre che ha partorito in anonimo, il termine, previsto dall’art. 93, comma 2, del D.Lgs. n. 196 del 2003, di cento anni dalla formazione del documento”. Invero, afferma la Corte, una diversa soluzione determinerebbe un’inaccettabile compromissione del diritto fondamentale del figlio, in contrasto con la necessaria reversibilità del segreto.

Ancora, più di recente, con la pronuncia n. 6963 del 2018, la Cassazione ha affermato che “l’adottato ha diritto, nei casi di cui all’art. 28, comma 5, della l. n. 184 del 1983, di conoscere le proprie origini accedendo alle informazioni concernenti non solo l’identità dei propri genitori biologici, ma anche quelle delle sorelle e dei fratelli biologici adulti, previo interpello di questi ultimi mediante procedimento giurisdizionale idoneo ad assicurare la massima riservatezza ed il massimo rispetto della dignità dei soggetti da interpellare, al fine di acquisirne il consenso all’accesso alle informazioni richieste o di constatarne il diniego, da ritenersi impeditivo dell’esercizio del diritto”.

Riconoscimento sentenze straniere di adozione

Riconoscimento delle sentenze straniere di adozione di minore

Quale valore assume in Italia la sentenza straniera di adozione di un minore? È possibile procedere al riconoscimento nell’ambito dell’ordinamento interno?

La legge 218/1995, recante norme interne di diritto internazionale privato, si occupa della relativa questione, stabilendo un’articolata disciplina. In particolare, all’art. 41, primo comma, è previsto che i provvedimenti stranieri in materia di adozione sono riconosciuti in Italia ai sensi degli artt. 64, 65 e 66 della medesima legge, mentre al secondo comma vengono fatte salve le disposizioni di carattere speciale in materia di adozione di minori. La legge, pertanto, mira a stabilire un coordinamento tra la disciplina generale di diritto internazionale privato e le leggi speciali in materia, nella specie, la legge 184/1983 sull’adozione internazionale di minori, ritenuta prevalente rispetto alla prima.

Nella prassi, tuttavia, non è sempre chiaro quando si debba fare applicazione dell’una o dell’altra normativa.

In particolare, si procederà al riconoscimento secondo le norme del diritto internazionale privato delle adozioni cd. “estere”, caratterizzate, quindi, integralmente da elementi di estraneità rispetto all’ordinamento italiano.
In presenza, invece, di elementi di collegamento con l’ordinamento interno, richiamati dalla legge 184/1983, sarà applicabile il procedimento di riconoscimento disciplinato dalla relativa normativa.
I due procedimenti presentano rilevanti diversità. Invero, la normativa generale prevede il riconoscimento diretto delle sentenze straniere che, al ricorrere di determinati presupposti, sono soggette a trascrizione automatica nei registri di stato civile, senza necessità di ricorso ad alcun procedimento. Inoltre, in caso di mancata attuazione o di contestazione del riconoscimento, è previsto il ricorso alla Corte d’Appello del luogo di attuazione.
Al contrario, la legge speciale sull’adozione internazionale richiede, ai fini del riconoscimento della sentenza straniera di adozione, la delibazione da parte del Tribunale per i Minorenni.

Le difficoltà nell’individuazione della disciplina applicabile in concreto hanno condotto a numerose pronunce della giurisprudenza di legittimità e della Corte Costituzionale, che a più riprese si sono occupate del coordinamento delle due normative.

Orbene, dall’analisi delle pronunce rese, emerge una tendenza pressoché assoluta da parte delle Corti ad attrarre il riconoscimento del provvedimento straniero di adozione nell’ambito di applicazione della l. 184/83, con conseguente necessità di delibazione del Tribunale per i Minorenni. Sicché, la disciplina della l. 218/95 viene ritenuta quasi mai applicabile nella pratica, dimostrando una tendenziale opposizione all’automatismo del riconoscimento in materia di adozione. Gli unici casi in cui tale disciplina viene ritenuta applicabile attengono alle adozioni “totalmente estere”, ossia che non recano elementi di collegamento con l’ordinamento interno.

Al contrario, si ritiene applicabile la norma speciale anche qualora occorra procedere al riconoscimento di decisioni straniere di adozione da parte di genitori che, in possesso della cittadinanza nello Stato di origine del minore, risiedono stabilmente in Italia.

Ciò per due ordini di ragioni principali. Il primo attiene alla verifica della compatibilità degli effetti del provvedimento con l’ordine pubblico e con i principi fondamentali dello Stato. Il secondo, ancor più rilevante, attiene alla tutela del minore e al controllo che la decisione da riconoscere risponda al maggiore interesse di quest’ultimo. Invero, l’esigenza di assicurare un controllo rigoroso sulla compatibilità del provvedimento con l’ordinamento interno, unitamente a quella di evitare che lo strumento del riconoscimento possa prestarsi ad eventuali abusi, induce le Corti ad attribuire la competenza circa il vaglio di compatibilità al Tribunale per i Minorenni. In tal senso, i Giudici sottolineano la portata tendenzialmente generale della competenza di tale Tribunale in materia di adozione di minori, nonché i maggiori strumenti di indagine e di intervento di cui lo stesso dispone a tutela dell’interesse dell’adottando (cfr. Cass. sent. n. 29668/2017).

Si ritiene, pertanto, che il superiore interesse del minore che viene in rilievo in materia di adozioni possa essere maggiormente tutelato dal Tribunale a ciò generalmente preposto (ovvero il Tribunale dei Minori), anche attraverso l’adozione di decisioni che vanno oltre il semplice riconoscimento del provvedimento straniero, quali, ad esempio, la conversione dell’adozione non legittimante in adozione legittimante (ex art. 32 co. 3 l. 184/83).

Infine, la giurisprudenza ritiene l’applicabilità della normativa speciale anche nel caso in cui i genitori non abbiano fatto ricorso alla procedura per l’adozione internazionale, ma al diverso procedimento di adozione in vigore nello Stato di provenienza del minore.

Assegni familiari: domanda ANF on line dal 1°Aprile 2019

I lavoratori dipendenti di aziende private non agricole dovranno richiedere l’assegno al nucleo familiare presentando il modello ANF/DIP (SR16) esclusivamente in modalità telematica, inoltrando la domanda online direttamente ovvero per il tramite del patronato o degli intermediari dell’INPS.

Non sarà più possibile presentare domanda per gli assegni al nucleo familiare al datore di lavoro, modalità di richiesta vigente fino al 31 marzo e che sarà superata per garantire un maggior rispetto della privacy dei lavoratori dipendenti e per garantire il corretto calcolo dell’importo spettante.

Resta inalterata invece la modalità di richiesta degli assegni familiari per i lavoratori agricoli a tempo indeterminato, che continueranno a richiederli direttamente al datore di lavoro presentando il modello “ANF/DIP” (SR16) cartaceo come attualmente previsto.

È con la circolare n. 45 che l’INPS illustra le novità relative alle modalità di presentazione della domanda per gli assegni familiari che riguardano i lavoratori dipendenti di aziende private non agricole.
La richiesta per ottenere gli ANF, l’assegno al nucleo familiare il cui importo è erogato direttamente in busta paga, dovrà essere inoltrata esclusivamente in modalità telematica.
La motivazione della novità è duplice: c’entra la privacy ma, parallelamente, l’INPS intende assicurare una maggiore correttezza nel calcolo dell’importo riconosciuto.

Le domande per la prestazione familiare, sinora presentate dai lavoratori interessati ai propri datori di lavoro utilizzando il modello “ANF/DIP” (SR16), a decorrere dal 1° aprile 2019 dovranno essere presentate esclusivamente all’INPS.

Sarà l’INPS, una volta ricevute le domande, a calcolare gli importi giornalieri degli assegni al nucleo familiare e quelli mensili teoricamente riconosciuti in base: alla composizione del nucleo familiare; al reddito conseguito negli anni precedenti. Il lavoratore, dopo aver fatto domanda, riceverà una comunicazione da parte dell’INPS soltanto nel caso di reiezione della richiesta di erogazione degli assegni familiari.
L’utente potrà prendere visione dell’esito della domanda presentata accedendo con le proprie credenziali alla specifica sezione “Consultazione domanda”, disponibile nell’area riservata.

In caso di variazione nella composizione del nucleo familiare, o nel caso in cui si modifichino le condizioni che danno titolo all’aumento dei livelli di reddito familiare, il lavoratore interessato dovrà presentare, esclusivamente in modalità telematica, una domanda di variazione per il periodo di interesse, avvalendosi della procedura “ANF DIP”.