Il Comune e i danni derivanti dal cedimento della strada

Il Tribunale di Bologna, con la sentenza n. 20423/2020, pubblicata il 23/07/2020, ha dichiarato la responsabilità del Comune per i danni cagionati ad un operaio, intento a svolgere un’operazione di spurgo, rimasto schiacciato dal proprio mezzo pesante, inclinatosi a causa del cedimento del manto stradale.

L’esaustiva sentenza sopra allegata fa il punto sull’evoluzione giurisprudenziale relativa alla responsabilità extracontrattuale da cosa in custodia, prevista dall’art. 2051 c.c., ai sensi del quale “Ciascuno è responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in custodia, salvo che provi il caso fortuito”, invocata dalla parte attrice a sostegno della richiesta di condanna del Comune, convenuto in giudizio.

Il Tribunale di Bologna precisa dapprima, sulla base del dato letterale della norma, che la responsabilità del custode è presunta, quando: a) il danno lamentato è stato provocato dalla cosa in custodia; e b) sussiste un rapporto di custodia, ovvero una relazione tra la cosa e colui che ha un effettivo potere sulla stessa.
Al ricorrere di tali condizioni la responsabilità del custode prescinde dal comportamento effettivo di quest’ultimo, che diviene responsabile per effetto della mera relazione con la cosa che ha cagionato il danno.

Il Giudicante quindi, richiamata la sentenza della Cassazione, Sez. Un., n. 12019/91, individua la ratio della norma nell’esigenza di “predisporre uno strumento di allocazione del danno improntato ad una finalità di giustizia distributiva”, indirizzato a trasferire il danno dal soggetto che lo subisce, senza colpa, al soggetto che ha un potere di fatto sulla cosa che quel danno ha cagionato.

Sulla base dell’orientamento espresso dalla Suprema Corte è possibile pertanto affermare che la responsabilità individuata dall’art. 2051 c.c. ha natura oggettiva, con l’effetto che il custode è esonerato solo laddove riesca a provare il “caso fortuito”, inteso come elemento esterno, imprevedibile ed inevitabile, che si sia inserito, interrompendolo, nel rapporto causale tra la cosa ed il danno.

Il Tribunale di Bologna chiarisce, poi, che in materia di sinistri avvenuti su strada o suolo pubblico, la Pubblica Amministrazione può essere chiamata a rispondere quale custode, ai sensi dell’art. 2051 c.c..

In giurisprudenza si è invero consolidato l’orientamento che, in casi come quello in esame, riconduce la responsabilità dell’ente pubblico alla fattispecie di cui all’art. 2051 (ex multis Cass. 15042/2008, Cass. 4495/2011, Cass. 14856/13), con abbandono dell’orientamento precedente che ammetteva la responsabilità della Pubblica Amministrazione solo al ricorrere dell’“insidia” o del “trabocchetto”, entrambi riconducibili all’alveo dell’art. 2043 c.c..

In sintesi la Pubblica Amministrazione è responsabile per i danni cagionati da difetti intrinseci della strada o da cattiva manutenzione della stessa, andando esente solo nell’ipotesi di caso fortuito, individuabile nel comportamento dell’utente o in un’alterazione repentina e non prevedibile dello stato della cosa che, “nonostante l’attività di controllo e la diligenza impiegata allo scopo di garantire un intervento tempestivo, non possa essere rimossa o segnalata, per difetto del tempo strettamente necessario a provvedere” (così Cass. 14856/2013).

Il Tribunale di Bologna, con la sentenza sopra allegata, precisa infine che la Pubblica Amministrazione risponde a prescindere dalla titolarità del bene, con l’effetto che l’ente pubblico può essere chiamato a risarcire anche il danno causato da una strada privata.
Infatti, ai fini dell’individuazione della responsabilità, rileva esclusivamente l’uso pubblico che del bene viene fatto.

In conclusione, la Pubblica Amministrazione risponde anche nei casi di strada privata, laddove quest’ultima sia gravata dal transito pubblico, in quanto, in tali casi, è l’amministrazione pubblica, anche se non proprietaria, ad essere gravata dall’onere di manutenere il bene.

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Datore di lavoro e risarcimento del danno per incidente stradale del dipendente

In caso di sinistro stradale che abbia determinato un’invalidità temporanea totale al dipendente, il datore di lavoro ha diritto ad esercitare la rivalsa nei confronti del responsabile civile e della sua assicurazione, per i costi sostenuti durante tutto il periodo di assenza del dipendente (quali retribuzione, contributi, ferie, tredicesima, quattordicesima, T.f.r., ecc…).

La prima sentenza storica in materia si è avuta con il famoso “caso Meroni”.
Nel 1967 a seguito di un investimento stradale decedeva il famoso calciatore del Torino, Luigi Meroni. Il Torino, quindi, promuoveva una causa civile per vedere riconosciuto il proprio diritto al risarcimento del danno derivante dal mancato utilizzo del calciatore. Tale controversia si concludeva con la sentenza n. 174/1971, con cui la Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, ha stabilito, per la prima volta, la risarcibilità del danno subito dal creditore per il fatto doloso o colposo altrui che abbia cagionato la morte del suo debitore.

Detto orientamento è stato poi ulteriormente confermato e perfezionato dalla Suprema Corte, con la sentenza a Sezioni Unite n. 6132 del 1988.
Con tale pronuncia la Corte di Cassazione ha infatti precisato che “il responsabile di lesioni personali in danno di un lavoratore dipendente, con conseguente invalidità temporanea assoluta, è tenuto a risarcire il datore di lavoro per la mancata utilizzazione delle prestazioni lavorative, la quale integra un ingiusto pregiudizio, a prescindere dalla sostituibilità o meno del dipendente, causalmente ricollegabile al comportamento doloso o colposo di detto responsabile. Tale pregiudizio, in difetto di prova diversa, è liquidabile sulla base dell’ammontare delle retribuzioni e dei contributi previdenziali, obbligatoriamente pagati durante il periodo di assenza dell’infortunato, atteso che il relativo esborso esprime il normale valore delle prestazioni perdute (salva restando la risarcibilità dell’ulteriore nocumento in caso di comprovata necessità di sostituzione del dipendente)” (cosi Cass. Civ. Sez. Un., sentenza n. 6132/1988).

Invero, in caso di sinistro stradale da cui siano conseguite lesioni a carico del lavoratore dipendente, gli enti previdenziali (Inail e Inps) garantiscono una quota della retribuzione, ma restano a carico del datore di lavoro una serie di costi che maturano per tutto il periodo in cui il dipendente è assente dal luogo di lavoro.

Tali costi, sulla base del sopra descritto orientamento della giurisprudenza, costituiscono un “danno ingiusto” a carico del datore di lavoro che dovrà essere risarcito dal responsabile civile.

Va infine evidenziato che, in caso di sinistro stradale, il datore di lavoro potrà esercitare tale rivalsa direttamente nei confronti della compagnia di assicurazione del responsabile civile.


La Corte di Cassazione ha infatti da tempo chiarito che, in materia di sinistro stradale, nella nozione di danneggiato, a cui compete l’azione diretta contro l’assicuratore, “vanno incluse non soltanto le persone direttamente e fisicamente coinvolte nell’incidente, ma tutte quelle che abbiano subito un danno in rapporto di derivazione causale con l’incidente medesimo” (così Cass. Civ., Sez. III, sentenza n. 15399/2002; Cass. Civ., Sez. III, sentenza n. 11099/1991).

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Rendita Inail e danno differenziale

La compensatio lucri cum damno: rendita Inail e danno differenziale

La legge di bilancio 2019 è intervenuta in riforma delle vigenti disposizioni in tema di diritto di rivalsa da parte dell’INAIL e di cd. “danno differenziale” (art. 1 co. 1126 l. 145/2018). Con particolare riguardo a questo secondo aspetto, attinente ai rapporti tra responsabile del sinistro e il danneggiato, la riformata disposizione legislativa — art. 10 co. 6 D.P.R. 1124/1965 — recita ora nei seguenti termini: “Non si fa luogo a risarcimento qualora il giudice riconosca che questo, complessivamente calcolato per i pregiudizi oggetto di indennizzo, non ascende a somma maggiore dell’indennità che, a qualsiasi titolo e indistintamente, per effetto del presente decreto, è liquidata all’infortunato o ai suoi aventi diritto”.

L’intervento del legislatore giunge a completamento di un articolato percorso interpretativo intrapreso dalla giurisprudenza, che per anni si è occupata dei rapporti tra indennizzo INAIL — o, più in generale, di qualsiasi vantaggio ottenuto dal danneggiato in conseguenza dell’illecito — e risarcimento del danno a cui è obbligato il responsabile civile o il suo assicuratore.

In particolare, si è trattato di stabilire le regole di funzionamento e l’ambito di operatività dell’istituto della compensatio lucri cum damno quale regola operativa per la stima e la liquidazione del danno. L’esistenza di un tale istituto, pur negata da una parte della dottrina, è da sempre pacifica in giurisprudenza, che ne ravvisa il fondamento nella funzione riparatoria e ripristinatoria del risarcimento, quale strumento volto a ricondurre il patrimonio del danneggiato nelle condizioni in cui si sarebbe trovato se non vi fosse stato l’illecito. Sicché il danno risarcibile è calcolato tenendo in considerazione tutte le conseguenze prodotte dall’illecito, comprendendovi anche le eventuali conseguenze positive o vantaggiose, in ossequio al cd. principio dell’indifferenza, secondo cui il risarcimento deve coprire tutto il danno cagionato, ma non può oltrepassarlo, pena un indebito arricchimento del danneggiato, inammissibile per l’ordinamento.

Ciò posto, escludendo i casi in cui sia un medesimo soggetto a dover corrispondere sia il risarcimento che l’indennità — in quanto, in tali ipotesi, l’istituto è stato da sempre ritenuto operante sia dalla giurisprudenza di legittimità sia da quella amministrativa (cfr. Ad. Plen. Sent. n. 1/2018) — il dibattito che ha dato luogo ad orientamenti contrastanti concerneva l’ipotesi in cui vi fosse duplicità di soggetti obbligati, sulla scorta di titoli differenti.

L’orientamento a lungo prevalente propendeva per la non operatività della compensatio in tali casi, argomentando nel senso che solo quando il danno e il beneficio derivano dallo stesso fatto del secondo può tenersi conto ai fini del calcolo del quantum del risarcimento, profilandosi, al contrario, in caso di titolo diverso, un rapporto di mera occasionalità.

L’orientamento opposto, sostenuto altresì nell’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite, propendeva invece per un’operatività più ampia dell’istituto della compensatio, affermando la detraibilità del vantaggio ogniqualvolta questo si presenti quale conseguenza immediata e diretta dell’illecito, prescindendo dalla fonte.

Le Sezioni Unite, chiamate a risolvere la questione “se dal computo del pregiudizio sofferto dal lavoratore a seguito di infortunio sulle vie del lavoro causato dal fatto illecito di un terzo, vada defalcata la rendita per l’inabilità permanente costituita dall’INAIL” hanno adottato una soluzione parzialmente differente rispetto ad entrambi gli orientamenti illustrati.

In particolare, secondo le Sezioni Unite risulta centrale la doverosa indagine circa la ragione giustificatrice dell’attribuzione patrimoniale entrata a far parte del patrimonio del danneggiato, al fine di verificare in concreto l’operatività della compensatio lucri cum damno. La prospettiva non è quindi quella della coincidenza formale dei titoli, né della mera applicazione del criterio di accertamento della causalità, applicato sia per il danno che per il vantaggio, ma occorre indagare la precipua funzione svolta dell’attribuzione patrimoniale in favore del danneggiato, verificando l’eventuale collegamento funzionale tra quest’ultima e l’obbligazione risarcitoria. A tal fine, rilievo centrale svolge la previsione da parte dell’ordinamento di meccanismi di surroga o rivalsa, capaci, da un lato, di valorizzare l’indifferenza del risarcimento, dall’altro di neutralizzare ingiusti vantaggi per l’autore dell’illecito.

Di talché, nell’ipotesi specifica della rendita INAIL, le Sezioni Unite hanno valorizzato la natura di tale attribuzione, individuata in una prestazione economica a carattere indennitario finalizzata alla copertura del pregiudizio occorso al lavoratore, condividendo così la medesima funzione svolta dall’obbligo risarcitorio in capo al terzo. In secondo luogo, la Suprema Corte sottolinea la previsione di cui all’art. 1916 c.c. che prevede il diritto di surroga in capo all’INAIL nei diritti dell’assicurato rispetto al danneggiante, garantendo così il riequilibrio delle rispettive prestazioni.
Conclusivamente, le Sezioni Unite giungevano ad affermare il seguente principio di diritto “l’importo della rendita per l’inabilità permanente corrisposta dall’INAIL […] occorso al lavoratore va detratto dall’ammontare del risarcimento dovuto, allo stesso titolo, dal terzo responsabile del fatto illecito” (Cass. Sez. Un. Sent. n. 12566/2018).

Ora, a fronte del recente intervento da parte del legislatore con la legge di bilancio 2019, occorrerà attendere le prossime pronunce da parte della giurisprudenza, al fine di comprendere quale sarà l’orientamento prescelto, ovvero se esso si ponga il linea di continuità con le Sezioni Unite, e, in particolare, quale sarà l’interpretazione fornita alle espressioni introdotte del risarcimento “complessivamente calcolato per i pregiudizi oggetto di indennizzo” e dell’indennità “a qualsiasi titolo e indistintamente” erogata.

Danno tanatologico: risarcibilità

Con la sentenza n. 4146/2019, la Cassazione si è pronunciata nuovamente sulla questione della risarcibilità del danno tanatologico. Con tale espressione ci si riferisce al danno di natura non patrimoniale ex art. 2059 c.c. derivante dalla sofferenza patita dal soggetto prima della morte, a causa di un fatto illecito di un terzo.

Nel caso esaminato, gli eredi, rispettivamente genitori e fratello della vittima deceduta a seguito di un incidente stradale, richiedevano, tra l’altro, la condanna del responsabile civile e del suo assicuratore al risarcimento del danno biologico con invalidità permanente al 100%, essendo il congiunto deceduto all’incirca trenta minuti dopo il sinistro.

La Corte d’Appello aveva rigettato la domanda, pur con motivazione in parte contraddittoria, ritenendo insufficiente il lasso di tempo di sopravvivenza ai fini del risarcimento del danno biologico iure hereditatis.
La Suprema Corte, mostrando di aderire e di voler dare continuità all’insegnamento offerto dalle Sezioni Unite del 2015 (Cass. S.U., sent. n. 15350/2015), afferma che “se la morte è immediata o segue alle lesioni entro brevissimo tempo, non sussiste diritto al risarcimento del danno ”.

Infatti, in un’ottica di responsabilità civile orientata al risarcimento del danno-conseguenza e non del mero danno-evento, è necessaria, secondo la giurisprudenza, la sopravvivenza del soggetto per un lasso di tempo apprezzabile, oppure che, pur intervenendo la morte dopo brevissimo tempo, la vittima rimanga cosciente e sia in grado di percepire la sofferenza e il patema d’animo derivanti dalla sensazione di morte imminente.

Soltanto in tali ipotesi può darsi corso al risarcimento del danno nei confronti degli eredi iure hereditatis, in quanto, in tali circostanze, il diritto entra a far parte del patrimonio del defunto prima che intervenga la morte, così da poter essere trasmetto agli eredi unitamente agli altri diritti.

Al contrario, in caso di morte immediata, la lesione si verifica nei confronti del bene “vita”, che è diritto autonomo rispetto al diritto alla salute, il quale è “fruibile solo dal suo titolare e non reintegrabile per equivalente”. La lesione del bene vita non rappresenta, quindi, la massima lesione del diritto alla salute, ma la lesione di un diverso diritto, la cui irrisarcibilità deriva dall’assenza, al momento del prodursi delle conseguenze dannose, di un soggetto nel cui patrimonio possano essere acquisiti i relativi diritti.

Nessun danno, pertanto, è risarcibile in re ipsa quale danno-evento indipendentemente dal prodursi delle conseguenze dannose ed indipendentemente dall’importanza dell’interesse leso, persino nel caso in cui si tratti del bene della vita. Con l’evento morte viene meno anche il titolare del diritto e con lui il suo patrimonio, con conseguente inidoneità dello stesso ad acquisire le conseguenze dannose dell’evento e trasferirle agli eredi.

Sulla scorta di tali motivazioni, “considerata la spiccata brevità del tempo intercorso tra la lesione e il decesso del motociclista – mezz’ora al massimo – e tenuto conto, per di più, della situazione di assoluta incoscienza in cui egli trascorse il suddetto ridottissimo spazio-temporale”, la Cassazione ha rigettato il ricorso, decretando, nel caso di specie, la non risarcibilità del danno tanatologico.

Per ulteriori approfondimenti in materia di risarcimento del danno è possibile consultare sul sito le aree tematiche dedicate ad Infortunistica stradale e Malasanità.