Diritto del padre al risarcimento per morte della figlia

La Corte d’Appello di Bologna con la sentenza n. 1185/2024 (in calce il testo integrale), nel definire la causa promossa da un padre per ottenere il risarcimento del danno conseguente alla tragica morte della figlia appena diciottenne a causa di un sinistro stradale, ha ribadito l’intrinseco valore del legame genitore-figlio.

Nel caso di specie veniva contestato al padre, straniero e divorziato, di essersi reso inadempiente dell’obbligo di mantenimento della figlia tanto da venire dichiarato indegno a succedere e che la figlia non intrattenesse più con lui alcun tipo di rapporto, vivendo ormai da tempo in Italia con la madre ed il suo nuovo compagno.

La Corte d’Appello ha evidenziato però che l’uccisione di una persona fa presumere il conseguente dolore dei genitori, a nulla rilevando che il figlio non coabiti con gli stessi, che vi sia lontananza o attenuazione del rapporto per conflittualità coniugale o disgregazione del nucleo familiare.

E’ di comune esperienza presumere invero che l’improvvisa morte di un figlio, nel fiore degli anni, non possa lasciare indifferente il genitore, anche nel caso in cui lo stesso figlio provasse sentimenti negativi nei confronti del padre.
Per tale motivo, alla luce di tutti gli elementi raccolti in fase istruttoria, che avevano consentito di accertare il legame affettivo del padre nei confronti della figlia, la Corte d’Appello di Bologna ha confermato la sussistenza dei presupposti per il risarcimento del danno da perdita parentale a favore dello stesso.

L’appello, sollevato dal padre contro la quantificazione del danno operata dal Giudice del primo grado di giudizio, ha poi consentito alla Corte d’Appello di definire i criteri di applicazione delle nuove Tabelle di liquidazione del danno da perdita parentale elaborate dal Tribunale di Milano nel 2022, a seguito dell’orientamento espresso da Cass. 10579/2021.

La sentenza in commento, in particolare, ha ribadito che il Giudice, nella liquidazione del danno da perdita/lesione del rapporto parentale, è tenuto ad accertare se siano configurabili entrambi i profili di danno conseguenti alla perdita parentale, ossia il dolore interiore ed il suo riflesso dinamico-relazionale, valutandone poi l’entità sulla base della prossimità del legame parentale, della sua intensità affettiva, della composizione residua del nucleo familiare, del dato anagrafico (età della vittima e del parente sopravvissuto) e di tutti gli elementi dotati di rilevanza.

Laddove, come nel caso in oggetto, venga riconosciuta la sola sofferenza morale, con esclusione di una lesione alla sfera relazionale del soggetto, il valore tabellare, che ingloba in sé entrambe le voci di danno, va dimezzato ma non ulteriormente ribassato.

Come correttamente osservato dalla Corte d’Appello infatti “la perdita del rapporto parentale rende preponderante il dolore della scomparsa, mentre la sua lesione incide soprattutto sulla sfera dinamico-relazionale del congiunto”.

Corte d’Appello di Bologna sentenza 1185 del 2024

Come comportarsi in caso di incidente stradale?

In questo intervento approfondiamo il tema del risarcimento del danno in caso di incidente stradale.

Nel commento video cerchiamo in particolare di dare risposta ad alcune delle domande più frequenti che ci vengono poste sul tema, quali ad esempio chi sostiene le spese legali o a chi competono i costi della consulenza medico-legale.

Per ulteriori approfondimenti sui temi trattati è possibile consultare sul sito le pagine dedicate ad Infortunistica stradale e comportamento da tenere in caso di incidente stradale.

Il Comune e i danni derivanti dal cedimento della strada

Il Tribunale di Bologna, con la sentenza n. 20423/2020, pubblicata il 23/07/2020, ha dichiarato la responsabilità del Comune per i danni cagionati ad un operaio, intento a svolgere un’operazione di spurgo, rimasto schiacciato dal proprio mezzo pesante, inclinatosi a causa del cedimento del manto stradale.

L’esaustiva sentenza sopra allegata fa il punto sull’evoluzione giurisprudenziale relativa alla responsabilità extracontrattuale da cosa in custodia, prevista dall’art. 2051 c.c., ai sensi del quale “Ciascuno è responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in custodia, salvo che provi il caso fortuito”, invocata dalla parte attrice a sostegno della richiesta di condanna del Comune, convenuto in giudizio.

Il Tribunale di Bologna precisa dapprima, sulla base del dato letterale della norma, che la responsabilità del custode è presunta, quando: a) il danno lamentato è stato provocato dalla cosa in custodia; e b) sussiste un rapporto di custodia, ovvero una relazione tra la cosa e colui che ha un effettivo potere sulla stessa.
Al ricorrere di tali condizioni la responsabilità del custode prescinde dal comportamento effettivo di quest’ultimo, che diviene responsabile per effetto della mera relazione con la cosa che ha cagionato il danno.

Il Giudicante quindi, richiamata la sentenza della Cassazione, Sez. Un., n. 12019/91, individua la ratio della norma nell’esigenza di “predisporre uno strumento di allocazione del danno improntato ad una finalità di giustizia distributiva”, indirizzato a trasferire il danno dal soggetto che lo subisce, senza colpa, al soggetto che ha un potere di fatto sulla cosa che quel danno ha cagionato.

Sulla base dell’orientamento espresso dalla Suprema Corte è possibile pertanto affermare che la responsabilità individuata dall’art. 2051 c.c. ha natura oggettiva, con l’effetto che il custode è esonerato solo laddove riesca a provare il “caso fortuito”, inteso come elemento esterno, imprevedibile ed inevitabile, che si sia inserito, interrompendolo, nel rapporto causale tra la cosa ed il danno.

Il Tribunale di Bologna chiarisce, poi, che in materia di sinistri avvenuti su strada o suolo pubblico, la Pubblica Amministrazione può essere chiamata a rispondere quale custode, ai sensi dell’art. 2051 c.c..

In giurisprudenza si è invero consolidato l’orientamento che, in casi come quello in esame, riconduce la responsabilità dell’ente pubblico alla fattispecie di cui all’art. 2051 (ex multis Cass. 15042/2008, Cass. 4495/2011, Cass. 14856/13), con abbandono dell’orientamento precedente che ammetteva la responsabilità della Pubblica Amministrazione solo al ricorrere dell’“insidia” o del “trabocchetto”, entrambi riconducibili all’alveo dell’art. 2043 c.c..

In sintesi la Pubblica Amministrazione è responsabile per i danni cagionati da difetti intrinseci della strada o da cattiva manutenzione della stessa, andando esente solo nell’ipotesi di caso fortuito, individuabile nel comportamento dell’utente o in un’alterazione repentina e non prevedibile dello stato della cosa che, “nonostante l’attività di controllo e la diligenza impiegata allo scopo di garantire un intervento tempestivo, non possa essere rimossa o segnalata, per difetto del tempo strettamente necessario a provvedere” (così Cass. 14856/2013).

Il Tribunale di Bologna, con la sentenza sopra allegata, precisa infine che la Pubblica Amministrazione risponde a prescindere dalla titolarità del bene, con l’effetto che l’ente pubblico può essere chiamato a risarcire anche il danno causato da una strada privata.
Infatti, ai fini dell’individuazione della responsabilità, rileva esclusivamente l’uso pubblico che del bene viene fatto.

In conclusione, la Pubblica Amministrazione risponde anche nei casi di strada privata, laddove quest’ultima sia gravata dal transito pubblico, in quanto, in tali casi, è l’amministrazione pubblica, anche se non proprietaria, ad essere gravata dall’onere di manutenere il bene.

Per ulteriori approfondimenti sui temi trattati è possibile consultare la pagina dedicata ad Infortunistica stradale.

Il monopattino elettrico

La legge 160/2019 ed il successivo D.L. 162/19, come convertito dalla Legge 8/2020, hanno dettato le regole per la circolazione del monopattino elettrico.

In particolare l’art. 75 della L. 160/2019 ha chiarito che il monopattino elettrico può circolare ed è equiparato al velocipede ai sensi del Codice della Strada, purché rispetti determinate caratteristiche tecniche stabilite dal Decreto del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti del 4/06/2019.

Infatti, posto che i monopattini elettrici, proprio come le biciclette, non sono soggetti ad alcuna immatricolazione e targatura, devono però:

  • avere un motore elettrico di potenza nominale continua non superiore a 0,50 kW;
  • essere dotati di un limitatore di velocità che non consenta di superare i 25 Km/h, quando viaggiano su strada, ed i 6 Km/h, quando circolano in area pedonale;
  • essere dotati di un campanello per le segnalazioni acustiche;
  • riportare la marcatura CE, prevista dalla direttiva 2006/42/CE;
  • non essere dotati di posto a sedere, perché devono essere destinati ad un utilizzo esclusivo in piedi;
  • da mezz’ora dopo il tramonto e per tutta la durata dell’oscurità, o comunque anche di giorno qualora le condizioni atmosferiche lo richiedono, devono essere equipaggiati con luci bianche o gialle anteriori e con luci rosse o catadiottri rossi posteriori per le segnalazioni visive. In mancanza non possono essere utilizzati ma solo condotti o trasportati a mano. Nelle medesime condizioni inoltre il conducente deve indossare il giubbotto o le bretelle retroriflettenti.

Chiunque circola con un monopattino a motore, avente caratteristiche tecniche diverse da quelle previste dalla norma, è soggetto alla sanzione amministrativa del pagamento di una somma da 100,00 a 400,00 euro, nonché alla sanzione accessoria della confisca del mezzo.

Proprio come per la conduzione della bicicletta, non sono necessari titoli abilitativi, ma per poter utilizzare su strade pubbliche il monopattino elettrico occorre avere compiuto quattordici anni di età.

I minori di età devono inoltre indossare idoneo casco protettivo.
Circa l’idoneità del casco protettivo, la circolare del Ministero dell’Interno del 9/03/2020 ha chiarito che possono considerarsi idonei i “modelli di casco provvisti di omologazione di qualsiasi tipo (per l’uso su strada o per ambiti quali quelli sportivi per proteggere il capo da urti per caduta in velocità)”.

Non possono essere trasportate altre persone, animali od oggetti, ed è vietato condurre animali o farsi trainare da qualche veicolo.

I conducenti dei monopattini elettrici devono sempre reggere il manubrio con entrambe le mani, salvo per segnalare la manovra di svolta, e non possono procedere mai affiancati in un numero superiore a due; in ogni caso, devono viaggiare su un’unica fila quando lo richiedono le condizioni della circolazione.

Il monopattino elettrico può circolare su tutte le strade urbane in cui vi è limite di velocità inferiore o pari ai 50 Km/h, sono invece escluse le strade urbane con limite di velocità superiore o quelle dove è espressamente vietata la circolazione dei velocipedi. Sulle strade extra urbane è possibile circolare ma solo all’interno della pista ciclabile.

Il conducente del monopattino elettrico deve rispettare il limite di velocità di 25 Km/h quando circola su strada e di 6 Km/h quando circola su area pedonale, nelle aree in cui tale circolazione sia consentita.

Chiunque violi le disposizioni di comportamento e di guida sopra descritte è punibile con una sanzione amministrativa, che può variare da 50,00 a 400,00 euro, a seconda della disposizione violata.

Oltre alla disciplina specifica appena illustrata, il monopattino elettrico, in quanto veicolo equiparato al velocipede, è soggetto all’applicazione delle norme di comportamento di carattere generale previste dal Codice della Strada ed, in particolare, all’art. 182 CdS, che disciplina la circolazione dei velocipedi, oltre che, in caso di violazione, alle relative sanzioni.

A titolo esemplificativo, quindi, il conducente di monopattino elettrico ha l’obbligo di segnalare tempestivamente la svolta con il braccio, di circolare sul margine destro della carreggiata, può utilizzare il cellulare solo con l’auricolare e mantenendo libero l’uso delle mani.

Se si circola con monopattino elettrico in stato di ebbrezza o di alterazione da sostanza stupefacente o psicotropa, si risponde per violazione degli artt. 186 e 187 CdS e si è sottoposti alle medesime sanzioni previste per gli automobilisti.

Tutti gli altri dispositivi elettrici, quali segway, hoverboard e monowheel, non possono circolare su strade pubbliche, a meno che non si tratti delle apposite aree predisposte per la sperimentazione sui predetti mezzi.

Dopo aver fatto il punto sulla disciplina oggi vigente, è importante altresì segnalare che sono in rapidissimo aumento i sinistri stradali che vedono coinvolti conducenti di monopattini elettrici, molti dei quali giovanissimi.

Anche il monopattino elettrico, come la bicicletta, non è soggetto ad alcun obbligo assicurativo.
Tuttavia, in caso di sinistro causato da monopattino, il conducente (i genitori in caso di conducente minorenne) è comunque tenuto al risarcimento dei danni cagionati a terzi.

E’ quindi fondamentale il rispetto delle norme di comportamento, in quanto anche solo il concorso di colpa del conducente del monopattino potrebbe avere risvolti significativi in termini di risarcimento del danno conseguente al sinistro.

E’ altrettanto importante, in caso di sinistro, rivolgersi immediatamente ad un professionista, per poter avere, sin dall’inizio, l’assistenza tecnica di un legale, che assicuri al danneggiato la protezione dei suoi diritti ed il riconoscimento di tutti i danni sofferti.

Per ulteriori approfondimenti sui temi trattati è possibile consultare le pagine dedicate ad Infortunistica stradale e comportamento da tenere in caso di incidente.

Datore di lavoro e risarcimento del danno per incidente stradale del dipendente

In caso di sinistro stradale che abbia determinato un’invalidità temporanea totale al dipendente, il datore di lavoro ha diritto ad esercitare la rivalsa nei confronti del responsabile civile e della sua assicurazione, per i costi sostenuti durante tutto il periodo di assenza del dipendente (quali retribuzione, contributi, ferie, tredicesima, quattordicesima, T.f.r., ecc…).

La prima sentenza storica in materia si è avuta con il famoso “caso Meroni”.
Nel 1967 a seguito di un investimento stradale decedeva il famoso calciatore del Torino, Luigi Meroni. Il Torino, quindi, promuoveva una causa civile per vedere riconosciuto il proprio diritto al risarcimento del danno derivante dal mancato utilizzo del calciatore. Tale controversia si concludeva con la sentenza n. 174/1971, con cui la Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, ha stabilito, per la prima volta, la risarcibilità del danno subito dal creditore per il fatto doloso o colposo altrui che abbia cagionato la morte del suo debitore.

Detto orientamento è stato poi ulteriormente confermato e perfezionato dalla Suprema Corte, con la sentenza a Sezioni Unite n. 6132 del 1988.
Con tale pronuncia la Corte di Cassazione ha infatti precisato che “il responsabile di lesioni personali in danno di un lavoratore dipendente, con conseguente invalidità temporanea assoluta, è tenuto a risarcire il datore di lavoro per la mancata utilizzazione delle prestazioni lavorative, la quale integra un ingiusto pregiudizio, a prescindere dalla sostituibilità o meno del dipendente, causalmente ricollegabile al comportamento doloso o colposo di detto responsabile. Tale pregiudizio, in difetto di prova diversa, è liquidabile sulla base dell’ammontare delle retribuzioni e dei contributi previdenziali, obbligatoriamente pagati durante il periodo di assenza dell’infortunato, atteso che il relativo esborso esprime il normale valore delle prestazioni perdute (salva restando la risarcibilità dell’ulteriore nocumento in caso di comprovata necessità di sostituzione del dipendente)” (cosi Cass. Civ. Sez. Un., sentenza n. 6132/1988).

Invero, in caso di sinistro stradale da cui siano conseguite lesioni a carico del lavoratore dipendente, gli enti previdenziali (Inail e Inps) garantiscono una quota della retribuzione, ma restano a carico del datore di lavoro una serie di costi che maturano per tutto il periodo in cui il dipendente è assente dal luogo di lavoro.

Tali costi, sulla base del sopra descritto orientamento della giurisprudenza, costituiscono un “danno ingiusto” a carico del datore di lavoro che dovrà essere risarcito dal responsabile civile.

Va infine evidenziato che, in caso di sinistro stradale, il datore di lavoro potrà esercitare tale rivalsa direttamente nei confronti della compagnia di assicurazione del responsabile civile.


La Corte di Cassazione ha infatti da tempo chiarito che, in materia di sinistro stradale, nella nozione di danneggiato, a cui compete l’azione diretta contro l’assicuratore, “vanno incluse non soltanto le persone direttamente e fisicamente coinvolte nell’incidente, ma tutte quelle che abbiano subito un danno in rapporto di derivazione causale con l’incidente medesimo” (così Cass. Civ., Sez. III, sentenza n. 15399/2002; Cass. Civ., Sez. III, sentenza n. 11099/1991).

Per ulteriori approfondimenti sui temi trattati è possibile consultare le pagine del sito dedicate ad Infortunistica stradale ed il video su come comportarsi in caso di incidente stradale.

Svolta a sinistra e incidente stradale

Svolta a sinistra e incidente stradale

In termini di responsabilità da sinistro stradale e conseguente risarcimento del danno, cosa accade nell’ipotesi, sempre più frequente, in cui il conducente di un veicolo, nell’intraprendere manovra di svolta a sinistra, urta un altro veicolo, in prevalenza motociclo o bicicletta, proveniente da tergo, nella sua stessa direzione di marcia, in manovra di sorpasso?

Di chi è la colpa? Del conducente del veicolo in svolta o del conducente del mezzo in sorpasso?

La giurisprudenza di legittimità è costante nell’affermare che il conducente di un veicolo che debba svoltare a sinistra, ha l’obbligo di dare la precedenza, prima, ai veicoli provenienti da destra (ossia quelli dal lato opposto della strada) ed ha altresì l’obbligo, che deriva dalla comune prudenza, di assicurarsi, prima di svoltare, che non sopraggiungano veicoli da dietro, ai quali spetta al pari la precedenza, anche se si trovano in una illegittima fase di sorpasso (così ex multis Cass. Civ., Sez. III, 27/07/2012, n. 13380; Cass. Civ., Sez III, 4/03/2004, n. 4402; Tribunale di Genova, sentenza n. 1903/2015).

L’art. 154 del Codice della Strada stabilisce, infatti, che i conducenti che intendono eseguire una manovra per immettersi nel flusso della circolazione, per cambiare direzione o corsia, per invertire il senso di marcia, per fare retromarcia, per voltare a destra o a sinistra, per impegnare un’altra strada, per immettersi in un luogo non soggetto a pubblico passaggio, oppure per fermarsi, devono:
a) assicurarsi di poter effettuare la manovra senza creare pericolo o intralcio agli altri utenti della strada, tenendo conto della posizione, della distanza e della direzione di essi;
b) segnalare con sufficiente anticipo la loro intenzione.

Tale orientamento è stato altresì recentemente confermato da Cass. Pen. 19/10/2017, sentenza n. 48266, in cui, decidendo sul caso di un sinistro avvenuto tra il conducente di un motociclo in fase di sorpasso irregolare a velocità sostenuta ed il conducente di un veicolo in fase di svolta a sinistra, è stato ribadito che la verifica del conducente di non recare pericolo o intralcio durante il cambio di direzione, in particolare nell’ipotesi di svolta a sinistra, deve perdurare dall’inizio alla fine della manovra.

Del resto, in tema di responsabilità derivante da circolazione stradale, nel caso di scontro tra veicoli, anche ove il Giudice abbia accertato la colpa di uno dei conducenti, non può, per ciò solo, ritenere superata la presunzione posta a carico anche dell’altro dall’art. 2054 c.c., ma è tenuto a verificare nel concreto se quest’ultimo abbia o meno tenuto una condotta di guida corretta (così ex multis Cass. Civ., Sez. III, 4/11/2014, n. 23431).

Il secondo comma dell’art. 2054 del codice civile prevede, infatti, che “nel caso di scontro tra veicoli si presume, fino a prova contraria, che ciascuno dei conducenti abbia concorso ugualmente a produrre il danno subito dai singoli veicoli”.

E’, quindi, verosimile che in caso di sinistro avvenuto tra un veicolo in svolta a sinistra ed un mezzo in sorpasso, verrà riconosciuto un concorso di colpa a carico di entrambi i conducenti, la cui misura, in caso di lite, sarà accertata dal Giudice di merito all’esito della valutazione delle prove raccolte ed a seguito dell’eventuale espletamento di una Consulenza Tecnica cinematica.

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Incidente stradale e il risarcimento del trasportato

Incidente stradale: il risarcimento del trasportato

L’art. 141 codice delle assicurazioni dispone che il terzo danneggiato a seguito di un sinistro, nel quale egli risulti trasportato, ha diritto al risarcimento del danno in via diretta da parte dell’assicurazione del conducente, a prescindere dall’accertamento della responsabilità dei conducenti dei veicoli coinvolti, salva l’ipotesi del caso fortuito.

La norma in esame, di derivazione comunitaria, fa emergere lo spirito solidaristico di tutela sociale che sta alla base delle maggiori garanzie che si intende accordare al terzo trasportato, esonerando lo stesso dalla prova dell’effettiva responsabilità dei conducenti dei veicoli coinvolti. Il rischio di causa viene, quindi, traslato dal soggetto trasportato alla compagnia assicuratrice, conferendo principale tutela all’interesse del primo, che prevale su qualsivoglia questione inerente all’accertamento della responsabilità civile, con esclusione del solo caso fortuito.

Al terzo danneggiato viene, così, accordato uno strumento di tutela aggiuntivo, al fine di conseguire il risarcimento del danno nei confronti dell’impresa assicuratrice, a prescindere dall’effettiva distribuzione della responsabilità. In tale ottica, il terzo dovrà provare esclusivamente il danno riportato e la sussistenza del nesso causale tra lo stesso e il sinistro, risultando esonerato dalla prova dell’effettiva dinamica dell’incidente e conseguente ripartizione di responsabilità tra i conducenti dei veicoli coinvolti (ex multis, Cass. sent. n. 16181/2015).

Resta salva l’ipotesi del caso fortuito, individuato dalla norma quale unica ipotesi di esclusione del diritto a risarcimento in capo al terzo. Nella nozione di caso fortuito, per orientamento maggioritario, la giurisprudenza di legittimità include, accanto agli eventi di origine naturale che sfuggono al controllo umano, anche il comportamento del danneggiato o di un terzo, la cui autonomia e imprevedibilità può elidere il nesso causale con gli avvenimenti precedenti (ex multis Cass. Sez. III, ord. 2477/2018, Cass. sent. n. 25837/2017). Deve, tuttavia, trattarsi di un comportamento imprevedibile ed eccezionale, che non rientri nel normale sviluppo causale, così da divenire autonoma causa del sinistro.

La ratio garantista sottesa all’art. 141 c.d.a. si evince anche dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia europea in tema di direttive sull’assicurazione della responsabilità civile derivante da circolazione dei veicoli, in cui la Corte afferma che la disciplina di diritto interno deve essere interpretata dando prevalenza alla qualità di vittima avente diritto al risarcimento su quella dell’assicurato-responsabile, cosicché il terzo trasportato abbia un incondizionato diritto al risarcimento del danno alla persona causato dalla circolazione.

L’interpretazione garantista nei confronti del terzo trasportato risulta maggioritaria anche nell’ambito della giurisprudenza di legittimità e di recente avvalorata nella sentenza della Terza Sezione della Corte di Cassazione n. 1279/2019. In tale pronuncia, la Suprema Corte dichiara non rilevanti, ai fini del soddisfacimento del diritto risarcitorio del terzo, gli “aspetti puramente interni alla convenzione assicurativa, che riguarda l’assicurazione del trasportato o del responsabile civile, trasferendo sull’assicurazione del trasportante il rischio inerente a irregolarità o invalidità dell’assicurazione”. La Corte prosegue, poi, affermando che l’orientamento interpretativo accolto dalla giurisprudenza di legittimità e della Corte di Giustizia ha un’indubbia matrice costituzionale, volta a conferire al terzo un’adeguata e paritaria tutela in ogni situazione, evitando l’effetto discriminatorio che altrimenti si produrrebbe in capo al terzo trasportato a seconda della situazione in cui di volta in volta versi l’assicurazione del responsabile civile. La stessa non è neppure equiparabile al caso fortuito, “il quale prevede per il terzo il solo accollo del rischio non assicurabile perché imputabile al cd. “act of God””.

A conferma dell’indifferenza dell’accertamento della responsabilità dei conducenti dei veicoli coinvolti nel sinistro rispetto al diritto al risarcimento del terzo, la Corte, nella medesima pronuncia, afferma che la capacità di testimoniare nel giudizio inerente il risarcimento del terzo danneggiato delle parti coinvolte nel sinistro va valutato caso per caso, sotto il profilo della sussistenza di un interesse attuale e concreto, e non ipotetico e astratto. L’interesse del terzo deve essere comparato con l’interesse delle parti a contrastare o favorire l’azione del primo e non con il loro personale interesse, del tutto secondario, ad accertare la dinamica dell’incidente e ad individuarne il responsabile, “essendo questi ultimi fatti del tutto indifferenti per il terzo danneggiato, titolare di un diritto ad essere risarcito del danno subito a prescindere dalla eventuale responsabilità dell’uno o dell’altro conducente”.

Un orientamento differente è stato, tuttavia, accolto dalla Corte di Cassazione, a distanza di appena un mese dalla pronuncia sopra analizzata, nella sentenza della Terza Sezione n. 4147/19. La Suprema Corte, invero, elabora un ragionamento differente nell’analizzare i presupposti e i limiti della tutela del terzo trasportato, incentrando, in particolare, il giudizio sulla nozione di caso fortuito richiamata nell’incipit dell’art. 141 c.d.a. Quest’ultimo, a parere della Corte, fungerebbe da criterio dirimente nel bilanciamento degli interessi coinvolti e, solo una volta accertata la sua esclusione, si dovrebbe procedere al risarcimento del danno a prescindere dall’accertamento della responsabilità dei conducenti coinvolti.

La nozione di caso fortuito viene, quindi, interpretata nel senso di causazione del sinistro del tutto esterna al vettore, includendovi anche l’esclusiva responsabilità dell’altro conducente. Così interpretato, il criterio in esame determinerebbe due effetti: l’uno, sostanziale, per cui la responsabilità dell’assicuratore del vettore non sussiste se causa del sinistro non è la condotta dell’assicurato, cioè del vettore; l’altro, processuale, di addossare all’assicuratore l’onere probatorio di ricostruzione della vicenda sotto il profilo causale, dimostrando l’eventuale responsabilità esclusiva dell’altro conducente. Secondo la Corte, il successivo inciso della norma che prevede il diritto al risarcimento a prescindere dall’accertamento della responsabilità dei conducenti coinvolti dovrebbe coordinarsi con la prima parte della norma stessa e, dunque, letto nel senso che “se l’assicuratore del vettore non adempie all’onere impostogli dalla regola del caso fortuito di provare la totale derivazione dell’evento dannoso da questo, il processo non deve ulteriormente essere speso sul profilo della responsabilità”. In conseguenza, nell’accezione di caso fortuito adottata dalla Corte, l’art. 141 c.d.a. richiede che il vettore sia almeno corresponsabile del sinistro quale presupposto della condanna risarcitoria del suo assicuratore.

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Rendita Inail e danno differenziale

La compensatio lucri cum damno: rendita Inail e danno differenziale

La legge di bilancio 2019 è intervenuta in riforma delle vigenti disposizioni in tema di diritto di rivalsa da parte dell’INAIL e di cd. “danno differenziale” (art. 1 co. 1126 l. 145/2018). Con particolare riguardo a questo secondo aspetto, attinente ai rapporti tra responsabile del sinistro e il danneggiato, la riformata disposizione legislativa — art. 10 co. 6 D.P.R. 1124/1965 — recita ora nei seguenti termini: “Non si fa luogo a risarcimento qualora il giudice riconosca che questo, complessivamente calcolato per i pregiudizi oggetto di indennizzo, non ascende a somma maggiore dell’indennità che, a qualsiasi titolo e indistintamente, per effetto del presente decreto, è liquidata all’infortunato o ai suoi aventi diritto”.

L’intervento del legislatore giunge a completamento di un articolato percorso interpretativo intrapreso dalla giurisprudenza, che per anni si è occupata dei rapporti tra indennizzo INAIL — o, più in generale, di qualsiasi vantaggio ottenuto dal danneggiato in conseguenza dell’illecito — e risarcimento del danno a cui è obbligato il responsabile civile o il suo assicuratore.

In particolare, si è trattato di stabilire le regole di funzionamento e l’ambito di operatività dell’istituto della compensatio lucri cum damno quale regola operativa per la stima e la liquidazione del danno. L’esistenza di un tale istituto, pur negata da una parte della dottrina, è da sempre pacifica in giurisprudenza, che ne ravvisa il fondamento nella funzione riparatoria e ripristinatoria del risarcimento, quale strumento volto a ricondurre il patrimonio del danneggiato nelle condizioni in cui si sarebbe trovato se non vi fosse stato l’illecito. Sicché il danno risarcibile è calcolato tenendo in considerazione tutte le conseguenze prodotte dall’illecito, comprendendovi anche le eventuali conseguenze positive o vantaggiose, in ossequio al cd. principio dell’indifferenza, secondo cui il risarcimento deve coprire tutto il danno cagionato, ma non può oltrepassarlo, pena un indebito arricchimento del danneggiato, inammissibile per l’ordinamento.

Ciò posto, escludendo i casi in cui sia un medesimo soggetto a dover corrispondere sia il risarcimento che l’indennità — in quanto, in tali ipotesi, l’istituto è stato da sempre ritenuto operante sia dalla giurisprudenza di legittimità sia da quella amministrativa (cfr. Ad. Plen. Sent. n. 1/2018) — il dibattito che ha dato luogo ad orientamenti contrastanti concerneva l’ipotesi in cui vi fosse duplicità di soggetti obbligati, sulla scorta di titoli differenti.

L’orientamento a lungo prevalente propendeva per la non operatività della compensatio in tali casi, argomentando nel senso che solo quando il danno e il beneficio derivano dallo stesso fatto del secondo può tenersi conto ai fini del calcolo del quantum del risarcimento, profilandosi, al contrario, in caso di titolo diverso, un rapporto di mera occasionalità.

L’orientamento opposto, sostenuto altresì nell’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite, propendeva invece per un’operatività più ampia dell’istituto della compensatio, affermando la detraibilità del vantaggio ogniqualvolta questo si presenti quale conseguenza immediata e diretta dell’illecito, prescindendo dalla fonte.

Le Sezioni Unite, chiamate a risolvere la questione “se dal computo del pregiudizio sofferto dal lavoratore a seguito di infortunio sulle vie del lavoro causato dal fatto illecito di un terzo, vada defalcata la rendita per l’inabilità permanente costituita dall’INAIL” hanno adottato una soluzione parzialmente differente rispetto ad entrambi gli orientamenti illustrati.

In particolare, secondo le Sezioni Unite risulta centrale la doverosa indagine circa la ragione giustificatrice dell’attribuzione patrimoniale entrata a far parte del patrimonio del danneggiato, al fine di verificare in concreto l’operatività della compensatio lucri cum damno. La prospettiva non è quindi quella della coincidenza formale dei titoli, né della mera applicazione del criterio di accertamento della causalità, applicato sia per il danno che per il vantaggio, ma occorre indagare la precipua funzione svolta dell’attribuzione patrimoniale in favore del danneggiato, verificando l’eventuale collegamento funzionale tra quest’ultima e l’obbligazione risarcitoria. A tal fine, rilievo centrale svolge la previsione da parte dell’ordinamento di meccanismi di surroga o rivalsa, capaci, da un lato, di valorizzare l’indifferenza del risarcimento, dall’altro di neutralizzare ingiusti vantaggi per l’autore dell’illecito.

Di talché, nell’ipotesi specifica della rendita INAIL, le Sezioni Unite hanno valorizzato la natura di tale attribuzione, individuata in una prestazione economica a carattere indennitario finalizzata alla copertura del pregiudizio occorso al lavoratore, condividendo così la medesima funzione svolta dall’obbligo risarcitorio in capo al terzo. In secondo luogo, la Suprema Corte sottolinea la previsione di cui all’art. 1916 c.c. che prevede il diritto di surroga in capo all’INAIL nei diritti dell’assicurato rispetto al danneggiante, garantendo così il riequilibrio delle rispettive prestazioni.
Conclusivamente, le Sezioni Unite giungevano ad affermare il seguente principio di diritto “l’importo della rendita per l’inabilità permanente corrisposta dall’INAIL […] occorso al lavoratore va detratto dall’ammontare del risarcimento dovuto, allo stesso titolo, dal terzo responsabile del fatto illecito” (Cass. Sez. Un. Sent. n. 12566/2018).

Ora, a fronte del recente intervento da parte del legislatore con la legge di bilancio 2019, occorrerà attendere le prossime pronunce da parte della giurisprudenza, al fine di comprendere quale sarà l’orientamento prescelto, ovvero se esso si ponga il linea di continuità con le Sezioni Unite, e, in particolare, quale sarà l’interpretazione fornita alle espressioni introdotte del risarcimento “complessivamente calcolato per i pregiudizi oggetto di indennizzo” e dell’indennità “a qualsiasi titolo e indistintamente” erogata.

Danno tanatologico: risarcibilità

Con la sentenza n. 4146/2019, la Cassazione si è pronunciata nuovamente sulla questione della risarcibilità del danno tanatologico. Con tale espressione ci si riferisce al danno di natura non patrimoniale ex art. 2059 c.c. derivante dalla sofferenza patita dal soggetto prima della morte, a causa di un fatto illecito di un terzo.

Nel caso esaminato, gli eredi, rispettivamente genitori e fratello della vittima deceduta a seguito di un incidente stradale, richiedevano, tra l’altro, la condanna del responsabile civile e del suo assicuratore al risarcimento del danno biologico con invalidità permanente al 100%, essendo il congiunto deceduto all’incirca trenta minuti dopo il sinistro.

La Corte d’Appello aveva rigettato la domanda, pur con motivazione in parte contraddittoria, ritenendo insufficiente il lasso di tempo di sopravvivenza ai fini del risarcimento del danno biologico iure hereditatis.
La Suprema Corte, mostrando di aderire e di voler dare continuità all’insegnamento offerto dalle Sezioni Unite del 2015 (Cass. S.U., sent. n. 15350/2015), afferma che “se la morte è immediata o segue alle lesioni entro brevissimo tempo, non sussiste diritto al risarcimento del danno ”.

Infatti, in un’ottica di responsabilità civile orientata al risarcimento del danno-conseguenza e non del mero danno-evento, è necessaria, secondo la giurisprudenza, la sopravvivenza del soggetto per un lasso di tempo apprezzabile, oppure che, pur intervenendo la morte dopo brevissimo tempo, la vittima rimanga cosciente e sia in grado di percepire la sofferenza e il patema d’animo derivanti dalla sensazione di morte imminente.

Soltanto in tali ipotesi può darsi corso al risarcimento del danno nei confronti degli eredi iure hereditatis, in quanto, in tali circostanze, il diritto entra a far parte del patrimonio del defunto prima che intervenga la morte, così da poter essere trasmetto agli eredi unitamente agli altri diritti.

Al contrario, in caso di morte immediata, la lesione si verifica nei confronti del bene “vita”, che è diritto autonomo rispetto al diritto alla salute, il quale è “fruibile solo dal suo titolare e non reintegrabile per equivalente”. La lesione del bene vita non rappresenta, quindi, la massima lesione del diritto alla salute, ma la lesione di un diverso diritto, la cui irrisarcibilità deriva dall’assenza, al momento del prodursi delle conseguenze dannose, di un soggetto nel cui patrimonio possano essere acquisiti i relativi diritti.

Nessun danno, pertanto, è risarcibile in re ipsa quale danno-evento indipendentemente dal prodursi delle conseguenze dannose ed indipendentemente dall’importanza dell’interesse leso, persino nel caso in cui si tratti del bene della vita. Con l’evento morte viene meno anche il titolare del diritto e con lui il suo patrimonio, con conseguente inidoneità dello stesso ad acquisire le conseguenze dannose dell’evento e trasferirle agli eredi.

Sulla scorta di tali motivazioni, “considerata la spiccata brevità del tempo intercorso tra la lesione e il decesso del motociclista – mezz’ora al massimo – e tenuto conto, per di più, della situazione di assoluta incoscienza in cui egli trascorse il suddetto ridottissimo spazio-temporale”, la Cassazione ha rigettato il ricorso, decretando, nel caso di specie, la non risarcibilità del danno tanatologico.

Per ulteriori approfondimenti in materia di risarcimento del danno è possibile consultare sul sito le aree tematiche dedicate ad Infortunistica stradale e Malasanità.