Tag Archivio per: Divorzio

Cosa succede all’assegno di divorzio in caso di nuova convivenza?

La Corte di Cassazione, con la sentenza, a Sezioni Unite, n. 32198/2021, ha chiarito quali conseguenze abbia la nuova famiglia di fatto sull’attribuzione di un assegno di divorzio a carico del precedente coniuge.

Il provvedimento della Suprema Corte trae origine dall’impugnazione ad una sentenza della Corte d’Appello di Venezia, che aveva escluso l’obbligo in capo all’ex marito di corrispondere un assegno divorzile alla moglie, la quale aveva instaurato una nuova stabile convivenza, da cui era nata una figlia.
La Corte veneziana poneva a fondamento della propria decisione l’orientamento prevalente della giurisprudenza, in base a cui l’instaurazione da parte del coniuge divorziato di una nuova famiglia, anche non coniugale, avrebbe fatto automaticamente venire meno ogni presupposto per l’attribuzione di un assegno divorzile, in quanto la nuova unione avrebbe rescisso ogni connessione con il tenore ed il modello di vita precedenti (così Cass. Civ. n. 6855/2015 e successive).

La Corte di Cassazione, tuttavia, ha ritenuto non del tutto convincente tale orientamento, che non risulta supportato da alcun dato normativo ed appare incompatibile con la funzione dell’assegno divorzile, come delineata dalla giurisprudenza più recente, in particolare dalla nota pronuncia della Cassazione a Sezioni Unite, n. 28287 del 2018.
Da un lato infatti, la legge sul divorzio prevede esclusivamente che solo il passaggio a nuove nozze determini l’automatico venir meno dell’assegno divorzile; nulla è previsto per le nuove convivenze, neppure dalla Legge 76/2016, con cui si è data regolamentazione alle famiglie di fatto (cfr. sul sito l’approfondimento “I diritti dei conviventi”).
Dall’altro lato, la giurisprudenza ha chiarito, ormai in via consolidata, che l’assegno divorzile non ha solo funzione assistenziale, ovvero di dare sostegno al coniuge che a seguito dello scioglimento dell’unione coniugale si trovi privo di mezzi propri adeguati, ma ha anche finalità compensativo-perequative, volte a riequilibrare la disparità economica venutasi a creare tra i coniugi al momento del divorzio, quando tale disparità sia la conseguenza del sacrificio e del contributo prestato dal coniuge economicamente più debole alla formazione del patrimonio familiare e dell’ex coniuge (cfr. sul sito l’approfondimento “Assegno di divorzio e disparità economica tra i coniugi”).
In sintesi, l’assegno di divorzio non va più interpretato come strumento volto alla conservazione del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio ma quale mezzo per riequilibrare il reddito degli ex coniugi, consentendo al coniuge più debole economicamente il raggiungimento di un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, tenuto conto delle aspettative professionali a ciò sacrificate.

E’ evidente che la circostanza che il coniuge divorziato instauri una nuova convivenza stabile non può non avere effetti sul rapporto matrimoniale pregresso e sull’attribuzione dell’assegno divorzile.

Sebbene infatti la convivenza, legata ad una situazione di fatto e non ad un vincolo coniugale, non presenti quelle caratteristiche di stabilità proprie del matrimonio, essa determina tuttavia diritti e doveri di assistenza materiale e materiale, oggi peraltro regolamentati dalla Legge 76/2016.

L’ex coniuge, che conviva con un nuovo compagno a cui è legato da vincoli di assistenza morale e materiale, perde quindi ogni ragione assistenziale vantata nei confronti del precedente partner.

La Corte di Cassazione con la sentenza n. 32198/2021 in oggetto ha infatti chiarito che “in caso si instauri una convivenza stabile, giudizialmente provata, deve ritenersi che essa valga ad estinguere, di regola, il diritto alla componente assistenziale dell’assegno di divorzio anche per il futuro, per la serietà che deve essere impressa al nuovo impegno, anche se non formalizzato, e per la dignità da riconoscere alla nuova formazione sociale”.

La Suprema Corte ha, però, affermato che non altrettanto possa ritenersi per la componente compensativa dell’assegno di divorzio, come poc’anzi descritta.
La Corte ha infatti osservato che “se il coniuge più debole ha sacrificato la propria esistenza professionale a favore delle esigenze familiari, è ingiusto che egli perda qualsiasi diritto ad una compensazione dei sacrifici fatti, solo perché, al momento del divorzio o prima di esso, si è ricostruito una vita affettiva”.

La Corte di Cassazione ha dunque concluso nel ritenere che l’instaurazione da parte dell’ex coniuge di una stabile convivenza di fatto, sebbene incida sul diritto al riconoscimento di un assegno di divorzio e sulla quantificazione del suo ammontare, non determini, necessariamente ed automaticamente, la perdita del relativo diritto, qualora l’assegno divorzile abbia funzione esclusivamente compensativa.

Va infine segnalato, come spunto di ulteriore riflessione, che la Corte di Cassazione, con la pronuncia in oggetto, dopo aver fatto chiarezza sulle conseguenze della nuova convivenza in materia di assegno divorzile, ha ribadito che l’accordo tra coniugi risulta ad oggi lo strumento privilegiato per la risoluzione degli aspetti patrimoniali della crisi post-coniugale.

In sede di accordo infatti i coniugi, laddove sussistessero esigenze perequativo-compensative, potrebbero modulare il proprio percorso al di fuori del rigido schema dell’assegno mensile perpetuo, che terrebbe vincolati le parti anche nel futuro.
Potrebbe, ad esempio, essere prevista a favore del coniuge più debole la costituzione di una rendita predeterminata, da corrispondersi in un’unica soluzione o per un numero limitato di anni, sotto forma di assegno temporaneo, oppure mediante trasferimento di beni immobili o di altra natura.

Una liquidazione definitiva dei rapporti coniugali, oltre ad evitare future conflittualità, garantirebbe la posizione di entrambe le parti, consentendo al coniuge debole di avere un capitale di ripartenza, sulla base di cui intraprendere un nuovo percorso di vita, e tutelando al contempo il coniuge onerato che non si sentirebbe limitato nei suoi progetti di vita futuri dal dover continuare a corrispondere un assegno al partner precedente.

Per ulteriori approfondimenti sui temi trattati è possibile consultare sul sito le aree tematiche Separazione e Divorzio, e Differenza tra divorzio giudiziale e congiunto.

Cosa succede all’assegno di divorzio in caso di nuova convivenza?

La Corte di Cassazione, con la sentenza, a Sezioni Unite, n. 32198/2021, ha chiarito quali conseguenze abbia la nuova famiglia di fatto sull’attribuzione di un assegno di divorzio a carico del precedente coniuge.

Il provvedimento della Suprema Corte trae origine dall’impugnazione ad una sentenza della Corte d’Appello di Venezia, che aveva escluso l’obbligo in capo all’ex marito di corrispondere un assegno divorzile alla moglie, la quale aveva instaurato una nuova stabile convivenza, da cui era nata una figlia.
La Corte veneziana poneva a fondamento della propria decisione l’orientamento prevalente della giurisprudenza, in base a cui l’instaurazione da parte del coniuge divorziato di una nuova famiglia, anche non coniugale, avrebbe fatto automaticamente venire meno ogni presupposto per l’attribuzione di un assegno divorzile, in quanto la nuova unione avrebbe rescisso ogni connessione con il tenore ed il modello di vita precedenti (così Cass. Civ. n. 6855/2015 e successive).

La Corte di Cassazione, tuttavia, ha ritenuto non del tutto convincente tale orientamento, che non risulta supportato da alcun dato normativo ed appare incompatibile con la funzione dell’assegno divorzile, come delineata dalla giurisprudenza più recente, in particolare dalla nota pronuncia della Cassazione a Sezioni Unite, n. 28287 del 2018.
Da un lato infatti, la legge sul divorzio prevede esclusivamente che solo il passaggio a nuove nozze determini l’automatico venir meno dell’assegno divorzile; nulla è previsto per le nuove convivenze, neppure dalla Legge 76/2016, con cui si è data regolamentazione alle famiglie di fatto (cfr. sul sito l’approfondimento “I diritti dei conviventi”).
Dall’altro lato, la giurisprudenza ha chiarito, ormai in via consolidata, che l’assegno divorzile non ha solo funzione assistenziale, ovvero di dare sostegno al coniuge che a seguito dello scioglimento dell’unione coniugale si trovi privo di mezzi propri adeguati, ma ha anche finalità compensativo-perequative, volte a riequilibrare la disparità economica venutasi a creare tra i coniugi al momento del divorzio, quando tale disparità sia la conseguenza del sacrificio e del contributo prestato dal coniuge economicamente più debole alla formazione del patrimonio familiare e dell’ex coniuge (cfr. sul sito l’approfondimento “Assegno di divorzio e disparità economica tra i coniugi”).
In sintesi, l’assegno di divorzio non va più interpretato come strumento volto alla conservazione del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio ma quale mezzo per riequilibrare il reddito degli ex coniugi, consentendo al coniuge più debole economicamente il raggiungimento di un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, tenuto conto delle aspettative professionali a ciò sacrificate.

E’ evidente che la circostanza che il coniuge divorziato instauri una nuova convivenza stabile non può non avere effetti sul rapporto matrimoniale pregresso e sull’attribuzione dell’assegno divorzile.

Sebbene infatti la convivenza, legata ad una situazione di fatto e non ad un vincolo coniugale, non presenti quelle caratteristiche di stabilità proprie del matrimonio, essa determina tuttavia diritti e doveri di assistenza materiale e materiale, oggi peraltro regolamentati dalla Legge 76/2016.

L’ex coniuge, che conviva con un nuovo compagno a cui è legato da vincoli di assistenza morale e materiale, perde quindi ogni ragione assistenziale vantata nei confronti del precedente partner.

La Corte di Cassazione con la sentenza n. 32198/2021 in oggetto ha infatti chiarito che “in caso si instauri una convivenza stabile, giudizialmente provata, deve ritenersi che essa valga ad estinguere, di regola, il diritto alla componente assistenziale dell’assegno di divorzio anche per il futuro, per la serietà che deve essere impressa al nuovo impegno, anche se non formalizzato, e per la dignità da riconoscere alla nuova formazione sociale”.

La Suprema Corte ha, però, affermato che non altrettanto possa ritenersi per la componente compensativa dell’assegno di divorzio, come poc’anzi descritta.
La Corte ha infatti osservato che “se il coniuge più debole ha sacrificato la propria esistenza professionale a favore delle esigenze familiari, è ingiusto che egli perda qualsiasi diritto ad una compensazione dei sacrifici fatti, solo perché, al momento del divorzio o prima di esso, si è ricostruito una vita affettiva”.

La Corte di Cassazione ha dunque concluso nel ritenere che l’instaurazione da parte dell’ex coniuge di una stabile convivenza di fatto, sebbene incida sul diritto al riconoscimento di un assegno di divorzio e sulla quantificazione del suo ammontare, non determini, necessariamente ed automaticamente, la perdita del relativo diritto, qualora l’assegno divorzile abbia funzione esclusivamente compensativa.

Va infine segnalato, come spunto di ulteriore riflessione, che la Corte di Cassazione, con la pronuncia in oggetto, dopo aver fatto chiarezza sulle conseguenze della nuova convivenza in materia di assegno divorzile, ha ribadito che l’accordo tra coniugi risulta ad oggi lo strumento privilegiato per la risoluzione degli aspetti patrimoniali della crisi post-coniugale.

In sede di accordo infatti i coniugi, laddove sussistessero esigenze perequativo-compensative, potrebbero modulare il proprio percorso al di fuori del rigido schema dell’assegno mensile perpetuo, che terrebbe vincolati le parti anche nel futuro.
Potrebbe, ad esempio, essere prevista a favore del coniuge più debole la costituzione di una rendita predeterminata, da corrispondersi in un’unica soluzione o per un numero limitato di anni, sotto forma di assegno temporaneo, oppure mediante trasferimento di beni immobili o di altra natura.

Una liquidazione definitiva dei rapporti coniugali, oltre ad evitare future conflittualità, garantirebbe la posizione di entrambe le parti, consentendo al coniuge debole di avere un capitale di ripartenza, sulla base di cui intraprendere un nuovo percorso di vita, e tutelando al contempo il coniuge onerato che non si sentirebbe limitato nei suoi progetti di vita futuri dal dover continuare a corrispondere un assegno al partner precedente.

Per ulteriori approfondimenti sui temi trattati è possibile consultare sul sito le aree tematiche Separazione e Divorzio, e Differenza tra divorzio giudiziale e congiunto.

Cosa significa negoziazione assistita?

In questo intervento approfondiamo il tema della negoziazione assistita, che è una procedura, recentemente introdotta, che consente di risolvere una lite senza andare in Tribunale.

Le parti infatti, con l’assistenza obbligatoria di un difensore ciascuna, negoziano fino ad arrivare ad un accordo.

Nel commento video vengono quindi approfondite le particolarità ed i vantaggi di tale procedura, utilizzabile anche nei casi di crisi della famiglia.

Per ulteriori approfondimenti è possibile consulatare la pagina sul significato di Negoziazione Assistita.

Qual è la differenza tra separazione giudiziale e separazione consensuale?

Con questo commento video cerchiamo di dare risposta ad alcune delle domande più frequenti che ci vengono rivolte in caso di crisi della famiglia.

Sicuramente uno dei dubbi maggiormente ricorrenti riguarda le differenze tra separazione (o divorzio) giudiziale e separazione (o divorzio) consensuale.

In questo intervento, dopo aver chiarito in cosa consistono tali differenze e le caratteristiche delle due diverse procedure, vengono approfondite anche le tempistiche per ottenere la separazione ed il divorzio.

Per ulteriori approfondimenti sui temi trattati è possibile consultare le pagine dedicate a Separazione e Divorzio ed alle differenze tra separazione consensuale e giudiziale.

Unione Civile: che cos’è e com’è disciplinata

La Legge 20/05/2016, n. 76 (c.d. Legge Cirinnà), ha istituito l’Unione Civile, riconoscendo così il legame tra persone dello stesso sesso tra quelle formazioni sociali tutelate e garantite dagli artt. 2 e 3 della Costituzione.

A seguito, quindi, dell’entrata in vigore della predetta disposizione normativa, due persone dello stesso sesso, maggiorenni, unite da un vincolo sentimentale possono contrarre unione civile di fronte all’ufficiale di stato civile ed alla presenza di due testimoni, acquisendo così una posizione equiparabile a quella dei coniugi.

Le parti, mediante dichiarazione da effettuare all’ufficiale dello stato civile, possono anche concordare di adottare, per tutta la durata dell’unione civile, un cognome comune, scegliendo tra quello dei partner.

Proprio come i coniugi, con la sottoscrizione dell’unione civile, le parti acquistano i medesimi diritti ed assumono gli stessi obblighi, in particolare il dovere reciproco di assistenza morale e materiale, di coabitazione e di contribuzione ai bisogni della famiglia, in base alle proprie sostanze ed alla propria capacità di lavoro professionale e casalingo.

Anche il regime patrimoniale dell’unione civile viene disciplinato in analogia a quello del matrimonio, ovvero il regime ordinario è quello della comunione dei beni, salvo diversa convenzione tra le parti.

L’unione civile si scioglie per morte di un partner ed in tal caso si applicano le disposizioni previste dal codice civile per la successione del coniuge.

In sede di successione legittima, quindi, la parte sopravvissuta succede all’altra nelle medesima maniera del coniuge ed, in caso di successione ereditaria, resta salva anche per la parte di unione civile una quota di legittima sull’asse ereditario del partner deceduto.

In caso di morte del partner inoltre, la parte sopravvissuta ha diritto a tutte le indennità previste dal diritto del lavoro.
Del resto, in materia di diritto del lavoro, le parti dell’unione civile possono godere della disciplina prevista per il congedo matrimoniale, nonché, tra gli altri, dei permessi per lutto o per assistere il partner disabile.

Le parti dell’unione civile, però, proprio come accade per i coniugi, possono decidere di sciogliere la propria unione, per intervenuta crisi nel rapporto di coppia.

Ogni partner può infatti chiedere il “divorzio” in qualunque momento e anche se l’altro non è d’accordo.
Occorre però che la parte formalizzi la propria intenzione di sciogliere il legame, attraverso un’apposita dichiarazione avanti all’ufficiale di stato civile.
Decorsi tre mesi da tale dichiarazione, è poi proponibile la domanda di scioglimento dell’unione civile.

In sede di “divorzio”, attraverso un procedimento del tutto analogo a quello previsto per i coniugi, occorrerà quindi regolare tutti gli aspetti patrimoniali del rapporto, con possibilità anche di riconoscere ad uno dei partner un assegno divorzile o l’assegnazione della casa nella quale la coppia aveva fissato la propria residenza.

Gli effetti dello scioglimento dell’unione civile sono immediati e non occorre, come per i coniugi, attendere prima il decorso di un periodo di separazione.

E’, quindi, consigliabile in caso di scioglimento dell’unione civile che le parti si rivolgano ad un professionista nel settore legale per valutare i diritti e gli obblighi connessi alla cessazione della propria relazione sentimentale.

Separarsi con la Negoziazione Assistita

Il D.L. n. 132 del 2014, convertito con modificazione dalla Legge 10/11/2014 n. 162, ha introdotto nel nostro ordinamento uno strumento di soluzione consensuale dei conflitti familiari alternativo alla procedura avanti al Tribunale: la negoziazione assistita.

Il procedimento di negoziazione assistita consente invero ai coniugi di separarsi, divorziare o modificare le condizioni della separazione o del divorzio, in via negoziale, senza alcun deposito o udienza davanti al Giudice.

E’, comunque, obbligatoria l’assistenza di almeno un Avvocato per coniuge, così da garantire anche in fase negoziale il rispetto dei diritti delle parti.

Il procedimento di negoziazione assistita si svolge attraverso una doppia fase negoziale, che si articola, dapprima, nella sottoscrizione di una convenzione di negoziazione assistita, con cui le parti definiscono le modalità di svolgimento della negoziazione, e, successivamente, nella sottoscrizione dell’accordo di separazione o di divorzio.

Tale accordo dovrà poi essere depositato presso la Procura della Repubblica, al fine di ottenere da parte del P.M. l’autorizzazione in caso di figli minori o non autosufficienti, o il nulla osta negli altri casi. Successivamente l’accordo sarà trasmesso all’Ufficio di Stato Civile del Comune in cui è stato contratto il matrimonio per l’annotazione negli appositi Registri.

I coniugi possono ricorrere alla negoziazione anche in presenza di figli, minori, disabili, o non economicamente autosufficienti.
In tal caso, il Pubblico Ministero autorizzerà l’accordo solo dopo aver valutato la rispondenza dello stesso all’interesse dei figli.

In sede di negoziazione assistita i coniugi, oltre a disporre dell’eventuale mantenimento del coniuge e/o dei figli, potranno anche raggiungere accordi che comportino trasferimenti immobiliari.

L’accordo raggiunto a seguito di negoziazione assistita ha la stessa efficacia dei provvedimenti del Tribunale ed HA IL VANTAGGIO DI UNA MAGGIORE RAPIDITA’ non dovendo recarsi in Tribunale!!

Per tutta la durata del procedimento le parti devono cooperare in buona fede e con lealtà al fine di risolvere bonariamente il conflitto coniugale.

Per ulteriori approfondimenti sul tema è possibile consultare nel sito il video dedicato alla negoziazione assistita.

Divorzio tra stranieri: qual è la legge applicabile?

Quale legge si applica alla separazione e al divorzio che presentano elementi di internazionalità?

Il Giudice, chiamato a pronunciarsi sul divorzio di coniugi extracomunitari o con cittadinanze tra loro diverse, quale legge deve applicare allo scioglimento del matrimonio? Ed, in particolare, è possibile per il Giudice italiano applicare la legge di uno Stato diverso?

Tali interrogativi possono avere risvolti pratici molto significativi.
Si pensi, ad esempio, alla possibilità di applicare la legge di uno Stato che riconosce, al contrario del nostro ordinamento, il divorzio immediato, senza alcun preventivo periodo di separazione.

In Italia, la normativa di riferimento in materia di legge applicabile alla separazione e al divorzio che presentano elementi di estraneità è costituita dal Regolamento UE 1259/2010, cd. Roma III relativo all’attuazione di una cooperazione rafforzata nel settore della legge applicabile al divorzio e alla separazione personale”.

Tale Regolamento, che nasce con l’obiettivo di uniformare la disciplina dei singoli Stati partecipanti, attribuisce particolare rilievo all’autonomia ed alla volontà dei coniugi nella determinazione della legge applicabile al loro divorzio.

Il criterio di elezione per stabilire quale legge applicare al divorzio è infatti rappresentato dalla “scelta della parti”.
L’art. 5 del Regolamento Roma III stabilisce, invero, che i coniugi possono designare di comune accordo la legge applicabile al divorzio e alla separazione personale, purché si tratti:
a) della legge dello Stato di residenza abituale dei coniugi (sulla nozione di “residenza abituale “, cfr. l’approfondimento “Divorzio tra stranieri, qual è il Giudice competente?”) al momento della conclusione dell’accordo, o
b) della legge dello Stato dell’ultima residenza abituale dei coniugi se uno di essi vi risiede ancora al momento della conclusione dell’accordo, o
c) della legge dello Stato di cui uno dei coniugi ha la cittadinanza al momento della conclusione dell’accordo, o
d) della legge del foro (ovvero della legge dello Stato di cui cui viene adita l’autorità giurisdizionale).

Nell’ambito di tale elenco, tassativamente predeterminato dal Regolamento, le parti hanno quindi la possibilità di accordarsi sulla legge che verrà applicata al loro divorzio, prediligendo quella che meglio si adatta alle loro esigenze.

E’, quindi, di primaria importanza che i coniugi, al momento della scelta della legge applicabile al loro divorzio, siano correttamente informati dal loro difensore sugli aspetti essenziali delle diverse leggi nazionali applicabili al caso specifico, al fine di poter operare al meglio una scelta consapevole ed informata, a tutela dei propri interessi e nel rispetto della normativa vigente.

Le disposizioni di cui al richiamato Regolamento hanno peraltro carattere universale, ovvero, non solo si applicano a prescindere dalla nazionalità dei coniugi, ma consentono agli stessi di poter indicare anche la legge di uno Stato non appartenente all’Unione Europea o non aderente al Regolamento, purché nell’ambito del tassativo elenco sopra specificato.

Ad esempio, il Tribunale di Padova, con sentenza del 8/09/2017, a fronte della domanda congiunta di divorzio promossa da due coniugi marocchini, ha ritenuto, sulla base dell’accordo raggiunto dalle parti, di poter applicare al caso concreto la legge del Marocco.
Ciò, ha consentito ai coniugi di poter ottenere il divorzio immediato, previsto dalla legislazione marocchina, senza alcuna preventiva separazione.

Infatti, come ormai pacificamente sancito dalla giurisprudenza anche in materia di riconoscimento delle sentenze straniere di divorzio, la circostanza che il nostro ordinamento imponga la preventiva pronuncia della separazione, non osta all’applicazione della disposizione straniera che preveda il divorzio immediato.
La concessione, in tali casi, del divorzio immediato non contrasta invero con alcun principio di ordine pubblico, purché il Giudice compia un rigoroso accertamento, nel rispetto del diritto di difesa delle parti, sull’esistenza di un irrimediabile disfacimento della comunione di vita e di affetti tra i coniugi (così ex multis Cass. Civ. 25/07/2006, n. 16978 e Tribunale di Parma, sentenza 9/06/2014).

Così, ad esempio, il Tribunale di Parma, nel caso di due coniugi, l’uno di nazionalità italiana l’altro spagnola, che avevano designato la legge spagnola quale legge applicabile al rapporto, ha pronunciato, ai sensi del Codice Civile spagnolo, il divorzio, senza preventiva separazione (così Tribunale di Parma, sentenza 9/06/2014).
Ed ancora, il Tribunale di Belluno, nel caso di due cittadini albanesi, coniugati in Albania ma stabilmente residenti in Italia, come concordemente richiesto dalle parti, ha pronunciato lo scioglimento del matrimonio secondo la legge albanese, che consente, su base consensuale, la pronuncia immediata di divorzio (così Tribunale di Belluno, sentenza 27/10/2016).

Occorre, però, precisare in che termini e con quale forma debba essere espressa la scelta della legge applicabile.

Per quanto riguarda il termine, l’art. 5 del Regolamento Roma III prevede che l’accordo con cui i coniugi designano la legge applicabile al loro divorzio possa essere concluso e modificato in qualsiasi momento, ma al più tardi nel momento in cui è adita l’autorità giurisdizionale, salvo che la legge del foro stabilisca che i coniugi possono formulare tale designazione anche nel corso del procedimento avanti al giudice.

Sul punto la nostra giurisprudenza ha chiarito che, oltre agli accordi intervenuti prima della domanda giudiziale, sono ritenuti validi anche gli accordi effettuati in corso di causa, ed in particolare fino al momento in cui è possibile per le parti integrare le proprie domande, ovvero fino alle memorie integrative di cui all’art. 709 c.p.c., comma 3 c.p.c., e di cui art. 4, comma 10, della legge sul divorzio (così Tribunale di Milano 10/02/2014 e Tribunale di Belluno 27/10/2016).

Con riferimento, invece, ai requisiti di forma, l’art. 7 del Regolamento Roma III stabilisce che è sufficiente che l’accordo delle parti sia redatto per iscritto, datato e firmato da entrambi i coniugi, salvo che la legge dello Stato membro non preveda requisiti di forma supplementari per tali accordi.

A tal proposito, l’ordinamento italiano non prevede ulteriori requisiti di forma rispetto alla forma scritta. Ed infatti sono state ritenute valide anche le semplici scritture private, senza necessaria trascrizione in atto pubblico, e gli accordi raggiunti anche non contestualmente o raccolti in documenti separati.

Cosa succede, però, quando i coniugi non effettuano alcuna valida scelta sulla legge applicabile, perché, ad esempio, sono in disaccordo sulla legge da designare o perché uno dei due è rimasto contumace?

In tali circostanze è l’art. 8 del Regolamento Roma III a stabilire una serie di criteri, con un preciso ordine gerarchico, volti ad individuare la legge applicabile alla separazione e al divorzio.

In particolare, in mancanza di una scelta operata dalle parti, il divorzio e la separazione sono disciplinati:
a) dalla legge dello Stato di residenza abituale dei coniugi nel momento in cui è adita l’autorità giudiziaria, o in mancanza
b) dalla legge dello Stato dell’ultima residenza abituale dei coniugi, sempre che tale periodo non si sia concluso più di un anno prima che fosse adita l’autorità giurisdizionale, se uno dei coniugi vi risiede ancora nel momento in cui viene adita l’autorità giurisdizionale, o in mancanza
c) dalla legge dello Stato di cui i coniugi sono cittadini nel momento in cui è adita l’autorità giurisdizionale (legge di comune cittadinanza dei coniugi), o in mancanza
d) dalla legge dello Stato in cui è adita l’autorità giurisdizionale (lex fori).

Nel caso di una coppia di coniugi stranieri, entrambi residenti in Italia, troverà, quindi, applicazione la legge italiana.

Sul punto, ad esempio, il Tribunale di Mantova, chiamato a pronunciarsi sul ricorso per lo scioglimento del matrimonio, promosso da una cittadina cinese contro il coniuge di medesima nazionalità rimasto contumace, ha senza dubbio stabilito la piena applicabilità della normativa italiana, in virtù di quanto previsto dal Regolamento UE n. 1259/2010 (così Tribunale di Mantova, sentenza 24/02/2016).

Per ulteriori approfondimenti sul tema è possibile consultare la pagina dedicata a Separazione e Divorzio.

Divorzio tra stranieri, qual è il Giudice competente?

Nella società attuale è frequente che a dissolversi siano matrimoni che presentano elementi di internazionalità, ovvero famiglie in cui uno od entrambi i coniugi sono cittadini extracomunitari o con cittadinanze tra loro diverse, oppure famiglie composte da cittadini italiani ma residenti all’Estero, oppure ancora matrimoni contratti in Paesi esteri.

Per affrontare correttamente la separazione ed il divorzio di tali unioni, il giurista deve porsi due domande preliminari: l’una relativa alla legge applicabile al caso concreto (cfr. l’approfondimento “Divorzio tra stranieri: qual è la legge applicabile?”), e l’altra relativa alla giurisdizione, ovvero se il giudice italiano abbia la competenza giurisdizionale a decidere sulla dissoluzione di tale nucleo familiare.

Ogni vertenza familiare comporta, poi, una molteplicità di domande che affiancano quella di separazione o di divorzio, come le questioni attinenti alla prole, al mantenimento del coniuge o all’addebito della separazione.
Ebbene, in materia di giurisdizione, tali domande, seppur presentate congiuntamente e scaturenti da una medesima situazione di fatto, devono essere esaminate separatamente, in quanto ognuno dei predetti aspetti soggiace ad una diversa disciplina legislativa.

In materia di separazione, divorzio o annullamento del matrimonio, la giurisdizione viene determinata sulla base dell’art. 3 del Regolamento CE n. 2201/2003, c.d. Bruxelles II bis, le cui disposizioni trovano applicazione indipendentemente dalla cittadinanza europea delle parti e prevalgono sulle norme di diritto internazionale privato (così, sul punto, sentenza Corte di Giustizia Europea 29/11/2007 caso Sundelind Lopez).
Invero, solo laddove il caso concreto non trovi un collegamento con alcuno dei criteri individuati dal predetto Regolamento, potrà farsi richiamo alla legge sul diritto internazionale privato (Legge 218/1995).

Ai fini dell’individuazione della giurisdizione, l’Art. 3 del predetto Regolamento prevede una serie di criteri, tra loro alternativi, sostanzialmente vertenti sul concetto di “residenza abituale”.

Vi sarà, quindi, competenza del giudice italiano, oltre che per i coniugi con cittadinanza italiana (art. 3, comma 1, lett. b Reg. CE 2201/2003), anche nel caso di soggetti di cittadinanza diversa se in territorio italiano si trova la residenza abituale dei coniugi oppure l’ultima residenza abituale dei coniugi, se uno di essi vi risiede ancora, oppure la residenza abituale del convenuto oppure, in caso di domanda congiunta, la residenza abituale di uno dei due coniugi oppure la residenza abituale dell’attore, se vi ha risieduto per un anno immediatamente prima della domanda o sei mesi, nel caso in cui l’attore sia anche cittadino italiano (art. 3, comma 1, lett. a) Reg. CE 2201/2003).

Anche l’art. 8 del sopra citato Regolamento, che regola la competenza a decidere sulle questioni relative a responsabilità genitoriale ed affidamento della prole verte essenzialmente sul concetto di “residenza abituale”, ma questa volta con esclusivo riferimento al minore.
Quindi, tutte le questioni relative ad un minore abitualmente residente in Italia dovranno essere decise dal giudice italiano.

Con riferimento all’eventuale richiesta di addebito della separazione, occorre precisare che, mentre l’orientamento maggioritario, ritenendo la richiesta di addebito inscindibile ed accessoria alla pronuncia di separazione, ne concentra la giurisdizione in capo al medesimo giudice competente in virtù del Regolamento Bruxelles II bis (così Tribunale di Roma 5/06/2015 e Tribunale di Belluno 13/06/2017), altra parte della giurisprudenza ritiene tale domanda estranea all’ambito di applicazione del predetto provvedimento e riconducibile invece, per quanto attiene la determinazione della giurisdizione, all’alveo del Regolamento UE n. 1215/2012, concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale (così Tribunale di Tivoli).

Per quanto riguarda, infine, le obbligazioni alimentari o di mantenimento, sia del coniuge che dei figli, ai fini della determinazione del giudice competente assume rilievo il Regolamento CE n. 4/2009, che come il Bruxelles II bis, trova applicazione anche alle ipotesi di soggetti extracomunitari e prevale sulle norme di diritto internazionale privato.

In particolare l’art. 3 del predetto Regolamento, che disciplina la competenza generale, stabilisce al comma 1, lettere a) e b) due criteri alternativi di giurisdizione, relativi rispettivamente al luogo di “residenza abituale” del convenuto ed al luogo di “residenza abituale” del creditore, oppure alle successive lettere c) e d) del medesimo comma prevede un criterio di concentrazione della giurisdizione, qualora la causa di mantenimento risulti accessoria rispetto ad una causa sullo stato delle persone o ad un procedimento relativo alla responsabilità genitoriale.

In sintesi, su tali questioni, vi sarà competenza del giudice italiano, quando la domanda di mantenimento risulti accessoria ad una domanda di separazione, divorzio o di affido di minore pendente avanti al medesimo giudice, ovvero quando siano situate sul territorio italiano la residenza abituale del debitore o del creditore.

Vista la rilevanza attribuita dalla normativa sopra richiamata al concetto di “residenza abituale”, può essere utile, in conclusione, ricostruire come la giurisprudenza italiana abbia interpretato tale nozione, sulla base del diritto internazionale e dell’Unione Europea.

A tal proposito la Corte di Cassazione ha chiarito che per “residenza abituale” dei coniugi non si fa riferimento al dato della residenza anagrafica o formale ma al luogo del concreto e continuativo svolgimento della vita personale ed eventualmente lavorativa (cosi Cass. Civ., Sezioni Unite, 17/02/2010, n. 6380), e per “residenza abituale” del minore deve intendersi, a prescindere dalla residenza anagrafica, “il luogo in cui il minore trova e riconosce, anche grazie ad una permanenza tendenzialmente stabile, il centro dei propri legami affettivi, non solo parentali, originati dallo svolgersi della sua vita di relazione” (così Cass. Civ., Sezioni Unite, 30/03/2018, n. 8042).

Per ulteriori approfondimenti è possibile consultare la pagina del sito dedicata a Separazione e Divorzio.

Assegno di divorzio e sacrifici del coniuge

Assegno di divorzio e sacrifici del coniuge: il caso “Berlusconi Lario”

La pubblicazione della recente pronuncia sul “Divorzio Berlusconi – Lario”, con cui la Corte di Cassazione (Cass. Civ., Sez. I, ordinanza 30/08/2019, n. 21926) ha confermato la decisione emessa dalla Corte d’Appello di Milano di revocare l’assegno di divorzio da 1 milione e 400 mila euro mensili stabilito dal Tribunale di Monza a favore dell’ex moglie, consente di fare il punto sulle prime applicazioni concrete del nuovo orientamento interpretativo espresso in materia di assegno divorzile dalla Suprema Corte con la ormai nota sentenza n. 18287/2018.

Nella decisione sul “Divorzio Berlusconi – Lario”, la Corte di Cassazione ha in particolare dato rilievo al patrimonio personale, composto anche da immobili e gioielli di ingente valore, che la moglie si sarebbe formata nel corso della ventennale vita matrimoniale, attingendo unicamente alle risorse economiche del marito.

Secondo i Giudici della Suprema Corte l’entità di tale patrimonio, in grado di farle vivere “in agiatezza” il divorzio, sarebbe tale da compensare anche i sacrifici fatti dall’ex moglie in ambito professionale.

La Suprema Corte ha invero precisato che “le varie acquisizioni economico patrimoniali pervenute alla ricorrente durante il matrimonio hanno compensato anche il sacrificio delle sue aspettative professionali”. Nel suo ricorso in Cassazione la ricorrente aveva infatti sottolineato di aver “rinunciato in giovane età alla carriera di attrice per dedicarsi interamente alla casa, alla famiglia e all’allevamento dei tre figli”.

Dopo l’intervento delle Sezioni Unite ed in linea con l’orientamento sopra espresso della Corte di Cassazione, la giurisprudenza di merito ha, a sua volta, confermato che per il riconoscimento di un assegno divorzile in capo al coniuge richiedente è necessario che venga provato un rilevante divario nella situazione economica delle parti e che tale divario sia conseguente al sacrificio delle aspirazioni professionali compiuto dal coniuge durate il matrimonio, sempre che tale sacrificio abbia contribuito alla formazione o all’aumento del patrimonio dell’altro coniuge (cfr. sul punto Tribunale di Bologna, sentenza n. 1432 del 14/06/2019; Corte d’Appello di Napoli, 10/01/2019; Tribunale di Treviso, 8/01/2019; Fam. e Dir. n. 8-9, 1/08/2019).

La Corte d’Appello di Napoli, ad esempio, in applicazione dei suddetti principi, ha rigettato la domanda di assegno divorzile in un caso in cui, seppur in presenza di un marcato squilibrio fra la situazione patrimoniale e reddituale dei coniugi, tale divario non era risultato causalmente riconducibile ad alcun sacrificio fatto dal coniuge a favore della famiglia, poiché, nonostante la lunga durata del matrimonio (25 anni), entrambe le parti avevano già compiuto prima del matrimonio le rispettive scelte professionali e dall’unione non erano nati figli (cfr. Corte d’Appello di Napoli, sentenza 10/01/2019).

E’ possibile sul punto consultare il nostro approfondimento su assegno di divorzio e disparità economica tra i coniugi e la pagina del sito dedicata a Separazione e divorzio.

Assegno divorzio e disparità economica coniugi

Assegno di divorzio e disparità economica tra i coniugi

Alla luce della sentenza n. 18287/2018, con cui la Corte di Cassazione, a Sezione Unite, è intervenuta sul tema dell’assegno divorzile, l’accertamento preliminare sull’esistenza di una significativa disparità economica, reddituale e patrimoniale tra i coniugi al momento del divorzio, costituisce presupposto per l’eventuale riconoscimento dell’assegno.

La Corte di Cassazione ha, infatti, offerto una rilettura delle norme contenute nell’art. 5 della legge sul divorzio (Legge 898/70), orientata a riconoscere all’assegno di divorzio diverse funzioni, tra cui quella assistenziale, qualora un coniuge si trovi del tutto sprovvisto di redditi o mezzi autonomi, e quella perequativa – compensativa, volta a compensare il contributo dato da uno dei coniugi alla famiglia, sacrificando le proprie aspettative professionali, e grazie a cui l’altro abbia potuto incrementare la propria capacità lavorativa e di reddito.

In particolare la Corte di Cassazione ha chiarito che, ai fini della valutazione circa la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento dell’assegno di divorzio, il Giudice deve condurre un giudizio unitario, accertando preliminarmente l’esistenza e l’entità di uno squilibrio, determinato dal divorzio, tra i mezzi a disposizione di entrambi i coniugi, e, di seguito, in che misura tale eventuale squilibrio sia dipendente dalle scelte di conduzione di vita familiare adottate e condivise in costanza di matrimonio, con il conseguente sacrificio delle aspettative professionali e reddituali di una delle parti.

Secondo le Sezioni Unite il predetto giudizio deve comporsi di tre momenti fondamentali: il primo volto all’accertamento dell’eventuale esistenza ed entità dello squilibrio patrimoniale tra i coniugi; il secondo attinente all’accertamento del nesso causale tra tale eventuale disparità e gli indicatori previsti dalla legge; il terzo volto a determinare l’importo perequativo-compensativo dell’assegno nel caso concreto.

Con la sentenza n. 1432/2019, il Tribunale Civile Di Bologna recepisce tale orientamento, sancendo l’insussistenza del diritto all’assegno divorzile nei casi in cui manchi una “effettiva disparità economica – patrimoniale tra le parti, tale da giustificare l’attribuzione ad uno degli ex coniugi di un emolumento economico per solidarietà post – coniugale”.

Nel caso in esame, invero, il Tribunale aveva accertato che entrambi i coniugi, ormai pensionati, erano gravati da numerosi debiti assunti in costanza di matrimonio, con la conseguenza che la situazione economica e patrimoniale delle parti appariva sostanzialmente equivalente.

Per tale motivo, “in assenza di un apprezzabile squilibrio”, che veda uno dei coniugi “in posizione significativamente deteriore, manca il presupposto fondamentale ed imprescindibile per riconoscere in favore dell’attrice un emolumento economico da parte dell’ex coniuge”.

In allegato il testo integrale della sentenza. E’ inoltre possibile consultare il nostro approfondimento Assegno di divorzio e sacrifici del coniuge: il caso “Berlusconi Lario”, nonchè l’area tematica Separazione e divorzio.